Da La Stampa del 11/12/2003
Ue, la fine dell'ambiguità
di Tommaso Padoa-Schioppa
Il criterio proposto dalla Convenzione per le votazioni a maggioranza qualificata in seno al Consiglio dei ministri - si richiede il sì della maggioranza dei governi, che rappresentino però almeno i tre quinti della popolazione dell'Unione - ha il pregio della semplicità e della coerenza con la doppia legittimazione dell'Unione, che si fonda sia sui popoli che sugli Stati.
I governi di Madrid e di Varsavia vorrebbero conservare la posizione di privilegio strappata nel dicembre 2000. Ma ciò non è giustificabile: un cittadino spagnolo conterebbe all'incirca quanto due cittadini tedeschi nel potere di voto del Consiglio. Ci deve essere un limite anche alla sovra-rappresentanza degli Stati minori. Restare ancorati alla soluzione di Nizza significherebbe affossare la riforma istituzionale che è al centro del progetto della Convenzione. Bene ha fatto il governo italiano a non cedere su questo punto. Se tuttavia la Spagna non rinuncerà alla sua pretesa, alla Conferenza intergovernativa mancherà l'unanimità: quell'unanimità che i trattati - e purtroppo anche il progetto della Convenzione - esigono per le future modifiche.
In realtà l'impasse è rivelatrice di un problema di base. L'integrazione europea è un progetto di natura politica, nel senso più alto della parola: il progetto di progressiva unificazione federale del nostro continente. L'analisi storica del codice genetico del mercato comune non lascia dubbi al riguardo. E' stato il successo straordinario dell'integrazione economica - il reddito reale di un Paese come l'Italia si è quintuplicato in mezzo secolo - a indurre Paesi inizialmente scettici, quando non apertamente ostili, a cominciare dalla Gran Bretagna, a chiedere di farne parte. E così poi la Spagna e gli altri, sino all'Unione dei 15 di oggi e dei 25 di domani. Ma alcuni di questi Paesi - o piuttosto, i rispettivi governi - hanno percepito nel processo d'unione anzitutto i vantaggi economici e di mercato. Non il disegno di fondo, senza il quale pure l'Unione economica non sarebbe mai nata.
Nell'opinione dei cittadini europei l'unione politica del continente non solo non costituisce un tabù, ma è considerata vantaggiosa. L'esito del recente sondaggio condotto in 15 Paesi Ue ha rivelato come su scala europea esista una maggioranza del 60% dei cittadini in favore di una politica estera comune e addirittura del 71% in favore di una difesa comune: obiettivi ben più ambiziosi di quanto previsto nel progetto della Convenzione. Sennonché, se alle intenzioni si vogliono far seguire i fatti, le procedure di decisione efficaci e democraticamente fondate sono indispensabili: dunque, occorre l'abolizione del potere di veto in seno al Consiglio e il costante ancoraggio al Parlamento europeo. Solo così interessi e valori dei cittadini potranno finalmente ottenere un'effettiva tutela. Non è un caso che là dove tali procedure esistono, l'Europa da nano è già divenuta gigante: lo stesso Bush ha dovuto far marcia indietro sui dazi decisi a vantaggio degli Usa per l'acciaio, che l'Ue aveva fermamente avversato.
Due prospettive si fronteggiano, tra governi ma anche all'interno di ciascuno dei due principali schieramenti politici nazionali ed europei, i conservatori e i progressisti. Da una parte, l'Europa come zona di libero scambio e semplice lega tra le nazioni, dall'altra l'Europa come unione politica su base federale. L'ambiguità non potrà durare all'infinito. Il nodo è ormai venuto al pettine. Esso a un certo punto andrà sciolto. O tagliato.
I governi di Madrid e di Varsavia vorrebbero conservare la posizione di privilegio strappata nel dicembre 2000. Ma ciò non è giustificabile: un cittadino spagnolo conterebbe all'incirca quanto due cittadini tedeschi nel potere di voto del Consiglio. Ci deve essere un limite anche alla sovra-rappresentanza degli Stati minori. Restare ancorati alla soluzione di Nizza significherebbe affossare la riforma istituzionale che è al centro del progetto della Convenzione. Bene ha fatto il governo italiano a non cedere su questo punto. Se tuttavia la Spagna non rinuncerà alla sua pretesa, alla Conferenza intergovernativa mancherà l'unanimità: quell'unanimità che i trattati - e purtroppo anche il progetto della Convenzione - esigono per le future modifiche.
In realtà l'impasse è rivelatrice di un problema di base. L'integrazione europea è un progetto di natura politica, nel senso più alto della parola: il progetto di progressiva unificazione federale del nostro continente. L'analisi storica del codice genetico del mercato comune non lascia dubbi al riguardo. E' stato il successo straordinario dell'integrazione economica - il reddito reale di un Paese come l'Italia si è quintuplicato in mezzo secolo - a indurre Paesi inizialmente scettici, quando non apertamente ostili, a cominciare dalla Gran Bretagna, a chiedere di farne parte. E così poi la Spagna e gli altri, sino all'Unione dei 15 di oggi e dei 25 di domani. Ma alcuni di questi Paesi - o piuttosto, i rispettivi governi - hanno percepito nel processo d'unione anzitutto i vantaggi economici e di mercato. Non il disegno di fondo, senza il quale pure l'Unione economica non sarebbe mai nata.
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