Da Famiglia cristiana del 09/11/2003
Originale su http://www.sanpaolo.org/fc/0345fc/0345fc33.htm

Ancora attentati sei mesi dopo la fine della guerra

Occupanti o bersagli?

La Casa Bianca ripete: «Non ce ne andremo dal Paese». E questo è proprio ciò che vogliono anche i terrroristi.

di Fulvio Scaglione

Tra un attentato e una dichiarazione di Bush si consuma il dramma delle truppe americane. Sono ormai 235, con i 16 caduti nell’abbattimento dell’elicottero Chinook a Fallujah, i soldati morti in Irak dopo il 1° maggio, quando il presidente dichiarò finita la guerra, senza contare i civili statunitensi (dipendenti del Pentagono, come i due uccisi a Fallujah, o altro personale dalle non ben chiare incombenze), i poliziotti, i politici (sono stati uccisi anche il vicesindaco di Baghdad, Faris Al Hassam, e il ministro degli Esteri del Consiglio di Governo, Akila Al Hashimi) e i civili iracheni.

La Casa Bianca ripete, con questo o quel rappresentante, che gli Usa non se ne andranno, che sono determinati a finire il lavoro. Affermazioni inevitabili, visto anche il continuo calo della fiducia degli americani nelle decisioni prese (secondo un sondaggio Washington Post-Abc, solo il 47 per cento degli interpellati approva la strategia di Bush e il 62 ritiene già eccessive le perdite subite).

Ma se davvero Washington pensa, come ha dichiarato Trent Duffy, portavoce della Casa Bianca, che «i terroristi vogliono che ce ne andiamo», allora commette un grave errore. I "terroristi" (termine erroneo, ormai gli americani hanno di fronte un vero movimento di resistenza) vogliono proprio il contrario: e cioè che le truppe Usa stiano dove sono, in un Paese loro estraneo che mal le sopporta, a fare da bersaglio, a diventare la prima notizia dei telegiornali della sera, come avviene da mesi. Fonte di esaltazione e di orgoglio per masse arabe che in non piccola parte considerano gli Usa una potenza imperialista.


UNA DIFFUSA COMPLICITÀ

L’ala neoconservatrice dell’amministrazione Usa (Rumsfeld, Wolfowitz) insiste molto sul ruolo dei fedayn che arrivano dall’estero per combattere in Irak. Condoleezza Rice ha parlato di 2.000 terroristi infiltratisi da Iran e Siria, fonti dei servizi segreti Usa riducono il tutto a 200-400: nessuno, insomma, pare sapere qualcosa di preciso. Un fatto è ormai innegabile: per realizzare attentati come quello contro l’Hotel Rashid a Baghdad o contro l’elicottero a Fallujah, che richiedono programmazione (e quindi informazioni) e pianificazione (scelta del luogo, del tempo e degli strumenti), bisogna poter contare su una diffusa complicità della popolazione.

Nella sola Baghdad, ci sono 70.000 soldati Usa. Vale a dire, uno ogni 86 abitanti. Calcolando che più di metà della popolazione è formata da donne e bambini, che tra i maschi ci sono vecchi e infanti, che non tutti gli altri sono terroristi, e che con gli americani ci sono almeno 10.000 poliziotti iracheni, dovrebbe bastare per evitare tante violenze. Se non basta, vuol dire che, come minimo, la gente non collabora.

E proprio questo è il primo, paradossale risultato della guerra contro l’Irak che Bush fortissimamente volle contro il parere di molte grandi nazioni e dell’Onu: al posto di pacificare Israele, si è "palestinizzato" l’Irak.

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