Da Famiglia cristiana del 11/11/2003
Originale su http://www.sanpaolo.org/fc/0346fc/0346fc61.htm

Intervista al neocardinale Gabriel Zubeir Wako

Pace difficile ma non impossibile

«Dopo oltre vent’anni di guerra, il Paese ha bisogno di riconciliazione», dice l’arcivescovo di Khartoum. «E il Governo deve finirla di discriminare i cristiani».

di Renzo Giacomelli

Tornato a casa con la porpora nella valigia, Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum e primo cardinale sudanese, ha ricevuto molte visite di congratulazioni. La più inaspettata è stata quella del leader islamista Hassan El Turabi, che il 1° novembre ha guidato nella residenza del neocardinale una delegazione del Congresso nazionale del popolo. El Turabi, in passato presidente del Parlamento sudanese, ha sottolineato l’impegno dell’arcivescovo Zubeir Wako in favore del dialogo interreligioso e della pace.

Vi era un eccesso di diplomazia, al limite dell’ipocrisia, nella sottolineatura del dirigente islamista. Il dialogo tra cristianesimo e islam in Sudan è pressoché inesistente, da decenni il Governo di Khartoum, in mano a musulmani arabizzati, mira a islamizzare l’intero Paese, anche le regioni del Sud e la Nubia, abitate da popolazioni prevalentemente cristiane o seguaci delle religioni tradizionali. Più sincero il cenno alla pace.

Da quasi 21 anni il Paese è vittima d’una guerra tra gli insorti del Sud (l’Esercito popolare di liberazione del Sudan, guidato da John Garang) e le forze armate di Khartoum. Una guerra che finora ha causato due milioni di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Colloqui di pace sono in corso da tempo in Kenya tra Garang e rappresentanti di Khartoum. Le pressioni dell’Unione europea e degli Stati Uniti (il segretario di Stato americano, Colin Powell, a fine ottobre si è incontrato con le due delegazioni) hanno dato un’accelerazione alle trattative. Si spera che un accordo di pace venga firmato entro la fine dell’anno.

«La pace è in cima ai desideri di tutto il nostro popolo», ci dice il neocardinale Zubeir Wako, incontrato a Roma poco prima del suo ritorno a Khartoum. «Tutti vogliamo che finiscano questo massacro e lo sradicamento di tanta gente dalla propria terra».

Eminenza, quali le sembrano, nella situazione attuale del suo Paese, i maggiori ostacoli alla pace?
«Ne indico due. Il primo è trovare un’alternativa a chi da tanti anni è impegnato solo nella guerra. Occorre disarmare e dare un lavoro alle milizie dell’una e dell’altra parte. Il secondo ostacolo o, meglio, il secondo impegno prioritario, è quello di creare una mentalità di pace. Sono tantissime le famiglie che in questa guerra hanno avuto una o più vittime, ma non dobbiamo restare inchiodati al passato. Abbiamo bisogno di riconciliazione».

È possibile la riconciliazione tra le popolazioni musulmane del Nord e quelle cristiane o animiste del Sud?
«È possibile, anche se molto difficile. Certamente il conflitto ha complicato le cose, perché le differenze religiose sono state sfruttate quasi come un’arma di guerra. Sarà difficile tornare alla situazione di prima del conflitto, quando, almeno al Sud, le diversità religiose non creavano problemi».

A chi spetta spingere i sudanesi sulla strada della riconciliazione?
«Un ruolo di primo piano lo devono svolgere coloro che si occupano di formazione delle persone: le comunità religiose, le scuole. Anche il Governo può fare molto per ridare fiducia alle popolazioni che hanno sofferto tanto».

Che cosa dovrebbe fare il Governo?
«Dovrebbe finalmente finirla con la discriminazione verso i non musulmani e i non arabizzati».

Il Sudan è una Repubblica islamica?
«Formalmente no, perché la Costituzione non lo dichiara apertamente. Ma nella pratica è come se lo fosse. Solo i musulmani godono di pieni diritti, e le strutture di governo sono dominate dai musulmani. Per gli altri è difficile sentire questo Sudan come casa loro».

La sharia, la legge islamica, è applicata soltanto al Nord o anche nel resto del Paese?
«Ufficialmente si applica solo al Nord, ma essa è nei fatti la base di tutta la legislazione nazionale e, quindi, indirettamente, riguarda tutti. Al Nord, inoltre, la sharia viene imposta anche ai non musulmani».

Le cause della guerra che dura ormai da più d’un ventennio sono solo etniche e religiose?
«No, sono soprattutto politiche, economiche e sociali. Dopo l’indipendenza, il divario tra Nord e Sud è cresciuto, a svantaggio delle popolazioni del Sud, che sono state discriminate dal Governo. Negli ultimi anni si sono scoperte grandi risorse petrolifere al Sud. Le popolazioni di queste regioni esigono che i benefìci siano soprattutto a loro vantaggio. Anche questo è un capitolo del negoziato di pace. Nel quale si dovrebbe discutere pure delle responsabilità delle multinazionali che sfruttano il petrolio sudanese. Queste grandi società si preoccupano soprattutto della tranquillità del loro lavoro, e quindi mantengono buoni rapporti con il Governo, mentre badano assai poco sia al contesto sociale in cui operano sia all’impatto che le loro attività hanno tra le popolazioni locali».

Come vive la Chiesa sudanese in questa situazione?
«La nostra Chiesa è composta prevalentemente dalle popolazioni del Sud. Anche i fedeli dell’arcidiocesi di Khartoum sono in maggioranza sfollati del Sud. Viviamo quindi i problemi e le sofferenze derivanti dal conflitto e dallo sradicamento. Siamo impegnati a favore della pace, della giustizia, dei diritti umani. Ma il Governo e la gente del Nord guardano spesso con sospetto alla Chiesa, quasi fosse un’organizzazione della gente del Sud».

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