Da Corriere della Sera del 06/11/2003

La «classe degli investitori» asso nella manica di Bush

E' nato un nuovo ceto il cui unico credo è Wall Street. I repubblicani: «Ora è la destra il partito di massa»

di Ennio Caretto

WASHINGTON - A un anno dalle elezioni, Grover Norquist è pronto a scommettere che le vincerà Bush. Norquist dirige la lobby «Americani per la riforma del fisco, ed è uno dei guru elettorali repubblicani. Basa la propria convinzione sulla nascita di una nuova classe in America, la più vasta e potente di tutte. E' la «investor class», dichiara, la classe degli investitori in borsa, diretti o indiretti, il 58 per cento degli elettori. A loro, aggiunge, importano soprattutto l'ascesa di Wall Street e quanto vi è connesso, dall'aumento dei profitti delle imprese e dei dividendi azionari alla riduzione delle tasse, il piatto forte di Bush. E proprio ieri, il segretario del Tesoro americano John Snow ha dichiarato che «gli Stati Uniti sono entrati in una nuova fase d'espansione economica». Sulla «investor class», fervida credente nel libero mercato, sostiene Norquist, il messaggio di giustizia economica e di ridistribuzione del reddito dei democratici non sortisce quasi effetto. Spesso, è percepito come una minaccia al suo benessere, generato dalla Borsa. E l'Iraq? Nonostante l'emozione per le perdite dolorose di soldati americani, risponde Norquist, alle urne nel 2004 l'Iraq sarà meno importante dell'economia. Elettrizzati dall'improvviso e sorprendente «boom» del prodotto interno lordo - crescita del 7,2 per cento nel terzo trimestre - Norquist e compagni predicono anche che la nuova classe porterà a un drastico riallineamento dei due partiti. «Creerà una grande destra - afferma il lobbista - unificando il ceto medio e quello alto. In futuro, il partito di massa americano saremo noi repubblicani, e non più i democratici, un rovesciamento storico». Norquist ricorda che quattro anni fa la «investor class» costituiva solo il 44 per cento degli elettori, ma fu cruciale per la elezione di Bush. Larry Lindsay, l'ex consigliere economico del presidente, è d'accordo. «La classe degli investitori sarà l'ago della bilancia non solo delle elezioni del 2004 - spiega - ma anche di quella del 2008. I democratici le perderanno, se resteranno ancorati al welfare state e ai posti di lavoro». Stan Greenberg è il consulente elettorale democratico che plasmò la campagna di Al Gore contro Bush e in Italia di Rutelli contro Berlusconi. Non nega l'esistenza della «investor class» né il suo peso politico. Ammette anche che col passare del tempo alcuni suoi membri s'identifichino nel Partito repubblicano, indipendentemente dalle loro origini, e che votino in percentuale maggiore della media, il 70 per cento contro il 50 per cento. Ma contesta che la classe degli investitori sia monolitica. «Quasi i due terzi sono investitori indiretti, nei fondi pensione per esempio» sottolinea. «Individualmente non posseggono azioni e non giocano in Borsa. Continuano ad anteporre il pieno impiego, la sanità pubblica, la pensione agli investimenti privati e agli sgravi fiscali, restano cioè democratici. Quella di un'America di azionisti, tutta a destra, è una illusione». A sostegno della propria tesi, Greenberg evidenzia che negli ultimi mesi «Wall Street è salita ma la popolarità di Bush è scesa». A suo parere, le elezioni saranno decise dall'Iraq. In questa prospettiva, un altro guru democratico, il demografo Ruy Teixeira, ribatte che sarà cruciale «non la nuova ma la vecchia classe degli elettori indipendenti, il 10 per cento del totale, che fluttuano tra un partito e l'altro». E' vero, osserva Teixeira «che la maggior parte degli americani con reddito superiore ai 30 mila dollari annui s'interessa della Borsa». Ma è assurdo credere che «si lascerà incantare dalle sirene di Wall Street». La classe degli indipendenti, proclama il demografo, è più pragmatica e volubile della media, e vota in base a varie considerazioni, dalla sicurezza nazionale alle aspettative del proprio futuro. «Personalmente - termina - credo che guarderà innanzitutto al livello della disoccupazione e all'andamento della guerra in Iraq». Il dibattito sulla «investor class», che secondo Norquist è destinato a esplodere anche in Europa, Italia inclusa, obbliga però i democratici a interrogarsi sulla politica economica, come quello sull'Iraq li obbliga a interrogarsi sulla politica di difesa. La risposta del Partito alla sfida repubblicana non è unanime. L'ala neodemocratica, capeggiata dal senatore Joseph Lieberman, il compagno di corsa di Gore alle elezioni del 2000, oggi tra i candidati di punta alla Casa Bianca, ritiene che la migliore risposta sia una riduzione delle tasse diversa da quella di Bush. Lieberman propone sgravi fiscali per il 98 per cento dei contribuenti ma aumenti per il 2 per cento più ricco. Vuole inoltre rivedere il regime delle imprese, da cui il fisco trae solo il 7,4 per cento dei suoi cespiti, contro il 32 per cento di 50 fa. In questa maniera il senatore, che si considera l'erede di Bill Clinton e promette di contenere la spesa pubblica, risanerebbe anche l'enorme deficit del bilancio dello stato, 374 miliardi di dollari, e dei commerci, oltre 400 miliardi. A differenza dei neodemocratici, i liberal non credono nel potere della «investor class». Insistono invece sul ritorno all'equilibrio tra Stato e mercato raggiunto con le riforme di Franklin Roosevelt e Lyndon Johnson, ma alterato da Ronald Reagan e Bush, ossia sulla tassazione progressiva e la difesa dello Stato assistenziale. Il loro alfiere è l'economista Joseph Stiglitz, il Nobel del 2001, che nel suo ultimo libro, «I ruggenti anni Novanta», denuncia «il dominio della finanza privata sul pubblico interesse». Il nuovo dogma, ammonisce Stiglitz, è che «ciò che è bene per Wall Street è bene per l'America». Ma è un falso dogma, scrive il Nobel. «Wall Street ha ampliato il divario tra ricchi e poveri, tra vecchia economia e nuova economia, tra imprenditori e sindacati. Il ruolo dello Stato non può né deve essere ignorato. Il suo compito è di generare non delle classi, ma una società equa e civile».

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