Da Il Sole 24 Ore del 08/10/2003

Washington alza il tiro su Pechino

di Mario Platero

NEW YORK - Il messaggio del presidente George W. Bush è stato generale, ma chiaro: «Siamo per il libero commercio - ha detto ieri durante un breve incontro con i giornalisti - ma siamo anche per un commercio equo... faremo pressioni su certi Paesi perché aprano i loro confini». Fra i «certi Paesi» nel mirino americano ce n'è uno in particolare, la Cina. Gli Stati Uniti non hanno dimenticato lo smacco subito dal segretario al Tesoro John Snow quando, durante il viaggio a Pechino del 2 settembre, le sue richieste per una rivalutazione dello yuan, ancorato al dollaro e sottovalutato fino al 40% secondo gli operatori, furono accolte con un netto rifiuto. Snow disse allora che in mancanza del perseguimento di una politica di cambi flessibili la Cina rischiava di «creare una discontinuità nel sistema finanziario» interno. Per ora non è successo nulla e gli Usa si trovano con un problema duplice: non solo la Cina riesce ad avere prezzi competitivi nel settore manifatturiero grazie a un costo del lavoro e di protezioni sociali e ambientali molto inferiori a quelli dell'Occidente, ma a differenza di altri Paesi, è riuscita a mantenere anche il vantaggio competitivo sul cambio. Per questo ieri fonti vicine alla Casa Bianca hanno anticipato al Sole-24 Ore che l'amministrazione è pronta a proseguire nella linea dura contro la Cina, fino ad accogliere, se necessario, alcune delle proposte più aggressive che chiedono, come nel caso di quelle avanzate dal senatore Charles Schumer, l'imposizione di tariffe all'importazione del 27% per prodotti cinesi. Al coro delle proteste si è aggiunta recentemente la voce della National Association of Manufacturers. Anch'essa, sempre che la Cina non accetti di svalutare lo yuan, è pronta a partire all'attacco. Si aggiunga la posizione dura dei sindacati, preoccupati dai 700mila posti di lavoro perduti nel settore manifatturiero, molti a vantaggio della Cina. «Mi rendo conto delle pressioni concentriche sulla Casa Bianca - ha detto qualche giorno fa il premio Nobel per l'economia Gary Becker - trovo però che far partire una guerra commerciale con la Cina o chiudere le nostre frontiere sarebbe un errore. Dobbiamo renderci conto che il mondo cambia, le dinamiche competitive cambiano e che, soprattutto, la Cina non va vista solo come un Paese che toglie il lavoro ai nostri cittadini, ma anche come un locomotore economico globale». Becker tocca un punto molto delicato. Da una parte la Cina ha acquisito molti diritti: è stata inclusa nella Wto e più in generale lo stesso presidente Bush le ha dato un respiro "tripolare" con la Russia, al vertice di Shanghai; gode di forti tassi di crescita, di un saldo commerciale positivo e di flussi di investimenti invidiabili. Dall'altra parte Pechino non fa da sponda a chi le chiede, come gli Stati Uniti o l'Europa, di assumersi anche i doveri e le responsabilità che ricadono su un Paese che rivendica un ruolo di leadership nel processo della globalizzazione. Pechino risponde che la Cina sta svolgendo un ruolo importante che l'Europa o il Giappone non svolgono più: appunto quello di locomotore della crescita globale. I cinesi infatti consumano. E più cresce il loro tenore di vita più consumeranno prodotti occidentali, ad esempio nel lusso, nella moda o nell'alimentare, oltre che nell'alta tecnologia. Siamo in pieno negoziato bilaterale per trovare un modus vivendi e un equilibrio fra le due diverse esigenze che fanno capo alla Cina, quella di ottenere apertura senza rallentare la marcia del locomotore. La possibilità di fare un passo avanti ci sarà già il prossimo 20 di ottobre, quando George W. Bush si incontrerà con il presidente cinese Hu Jintao al vertice Apec di Bangkok. È possibile che i toni resteranno duri. Ma alla fine lo scenario degli esperti è ottimistico: la guerra commerciale sarà evitata e la Cina opterà per una rivalutazione della sua moneta fra il 10 e il 15% già per i primi mesi dell'anno prossimo.

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