Da Famiglia cristiana del 26/10/2003
Originale su http://www.sanpaolo.org/fc/0344fc/0344fc24.htm

Immigrati. Lampedusa, le testimonianze dei somali sopravvissuti

La fuga dei disperati

Scappano dalla miseria e dalla guerra. Lasciano un Paese lacerato dalla violenza tra bande rivali, dove per loro non c’è futuro. Inseguono un sogno, diventato incubo.

di Roberto Zichittella

Il poeta Federico Garcìa Lorca ha scritto che quando moriremo ci porteremo via una serie di immagini di cielo. Chissà quale cielo c’era negli occhi dei somali che sono arrivati morti a Lampedusa, e in quelli dei tanti che sono finiti per sempre in mare, già morti, gettati in acqua dai disperati compagni di una tragedia senza rimedio.

Forse l’unico cielo che hanno guardato con speranza nella loro vita è stato quello della notte, magari stellata, in cui sono partiti dalla costa libica sognando l’Italia.

A noi, l’ultima immagine che resta di questi disperati sono le loro bare. Tredici bare coperte dalla bandiera somala, azzurra come un cielo sereno. Tredici bare distese sulla piazza del Campidoglio, nel cuore di Roma, salutate dalle autorità di ogni parte politica e dai comuni cittadini. Un gesto di pietà e rispetto che fa onore al sindaco Veltroni e che per un giorno ha offerto l’immagine dell’Italia migliore.

Da che cosa fuggivano e che cosa speravano quei poveri morti lo sappiamo dai racconti dei sopravvissuti. Uomini, donne e bambini che sono arrivati vivi, anche se in condizioni spesso disperate. Le loro storie ci arrivano attraverso il racconto di chi li ha accolti e aiutati nelle prime ore dopo l’arrivo, e di chi li ha assistiti in ospedale.

Andrea Felappi, valdostano, infermiere volontario di Medici senza frontiere, era arrivato a Lampedusa il 10 ottobre. Gli sono capitati due sbarchi di disperati, quello di venerdì 17 e quello di domenica 19, con quella barca piena di morti. «Credevo che quelli di venerdì fossero il peggio», racconta Felappi, «invece domenica è stato ancora più terribile. Mi ha colpito un fatto: appena arrivate, queste persone chiedono degli amici e dei parenti partiti con loro. Non chiedono aiuto per sé stessi, ma vogliono prima di tutto sapere chi ce l’ha fatta».

Nonostante le sofferenze patite, la salvezza dà ai sopravvissuti un senso di euforia. «Sì», spiega Felappi, «c’è l’euforia iniziale per avercela fatta, ma poi hanno un crollo, tanto che le loro condizioni sembrano peggiorare. Tutti hanno patito il freddo perché hanno gli abiti inzuppati d’acqua».


ARRIVANO PIAGATI E DISIDRATATI

«Sono piagati», prosegue Felappi, «proprio perché bagnati dall’acqua salmastra e per le posizioni scomode a cui sono stati costretti sulla barca strapiena di gente. Se durante il viaggio è piovuto, hanno bevuto la pioggia tenendo la bocca aperta, altrimenti hanno bevuto l’acqua del mare e questo li ha disgustati, tanto che chiedono subito di bere bibite invece dell’acqua».

«Ma in quelle condizioni non possono né bere né mangiare, dobbiamo nutrirli e idratarli per via endovenosa. Quando poi riescono a prendere un po’ di cibo, ci costringono subito a darlo anche agli altri compagni. Cercano di condividere il cibo come se non ce ne fosse abbastanza per tutti».

Una volta idratati, nutriti e curati, i sopravvissuti cominciano a parlare. Gli ultimi arrivati, giunti dalla Somalia, hanno riaperto gli occhi del mondo sulla tragedia di questo Paese senza pace.

Loris De Filippi, capo missione di Medici senza frontiere a Lampedusa e responsabile dei programmi italiani dell’organizzazione, conosce bene la Somalia e in questi giorni ha raccolto le storie di alcuni dei sopravvissuti.

Fra le storie di cui si fa portavoce De Filippi c’è quella di Mohamed, un ragazzo di una trentina d’anni, lucido e credibile. Mohamed finisce la scuola secondaria nel 1992 e si trova per strada all’inizio della guerra civile. Si arrangia facendo il fotografo, ma a un certo punto capisce che in Somalia non ha futuro.

Allora scappa da Mogadiscio, trova una persona che ha dei contatti a Tripoli, parte su una jeep con una decina di persone, entra in Etiopia, arriva in Sudan. Lì si ferma nei mercati per fare provviste prima della traversata del Sahara, supera il deserto in sette giorni. La meta finale è Tripoli, in Libia. Qui Mohamed alloggia in una casupola insieme ad altri somali, pagando una cinquantina di dollari. Infine contatta il captain, l’uomo (a volte libico, altre volte somalo) che lo farà partire in barca.

Per la traversata Mohamed ha pagato 800 dollari, non meno di 500 li ha sborsati per la parte precedente del viaggio. Lui e gli altri partono contenti, convinti di arrivare in Italia dopo 36 ore. Ma dopo quattro ore il motore della barca si rompe. In breve tempo finiscono le scorte di cibo e acqua. Qualcuno perde la testa. Sei disperati mettono in mare delle assi di legno e partono a nuoto come se fossero su un surf, convinti di essere a un passo dalla Sicilia.

Al quarto giorno c’è il primo morto, un uomo sui 35 anni. Poi cedono gli altri. Ogni giorno muoiono almeno cinque compagni. I vivi decidono di buttarli a mare, per paura delle malattie e per avere più spazio. Alla fine i vivi non avranno più la forza di alzarsi e si sdraieranno accanto ai morti. Così sono stati trovati dai soccorritori.

«Mohamed ha deciso di fuggire», spiega De Filippi, «perché fa parte di un clan perdente nella guerra di bande che devasta la Somalia. Molti fuggono da Baidoa, dove si combattono le due fazioni del partito dominante. Sappiamo per certo che il 16 ottobre ci sono stati scontri con decine di morti e c’è il rischio che Baidoa diventi la città della morte, come nel 1992. Temo che dovremo aspettarci altri sbarchi di somali». Dalla morte del dittatore Siad Barre, nel 1991, la Somalia è in mano a bande sanguinarie che si contendono il potere. Il Paese non ha un apparato statale e neppure un governo. Comandano capi e capetti che si appoggiano a miliziani armati.


IL LORO PAESE È SEMPRE PIÙ POVERO

L’Onu e gli americani provarono a fare qualcosa nel 1992 con l’operazione Restore Hope (Ridare speranza), ma finì male e gli Usa dovettero precipitosamente ritirarsi. Sono rimasti soltanto pochi coraggiosi volontari, come l’italiana Annalena Tonelli, uccisa in un agguato poche settimane fa. Intanto il Paese è sempre più povero.

«A Mogadiscio resiste un po’ di commercio», dice De Filippi, «ma altrove c’è il disastro. In Somalia l’aspettativa di vita è di 40 anni, l’80 per cento della popolazione non ha accesso alle cure sanitarie, il 66 per cento non ha acqua».

Ecco perché fuggono. Come Usmane, il padre di famiglia che ha lasciato un ricordo indelebile nei volontari di Medici senza frontiere. Uomo colto e diplomato, era partito dalla Somalia con la moglie e i quattro figli. Non ne poteva più di stenti, guerra e morte.

Ha perso tre bambini durante il viaggio in mare tra la Libia e Lampedusa. Usmane è un uomo devastato dal dolore, la moglie dorme tra gli incubi, ma oggi dice: «Per la prima volta dopo tanto tempo trovo gente che mi dà da bere, da mangiare e mi chiede solo di riposare. Abbiamo perso tre figli, ma la bambina che ci è rimasta avrà di sicuro un futuro migliore».

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