Da La Stampa del 15/10/2003
Originale su http://www.lastampa.it/_web/_INTERNET/copyfight/archivio/copyfight0310...

DMCA: quando la legge frena l’innovazione

di Stefano Porro

D’ora in poi staremo tutti più attenti a pigiare i tasti del nostro computer. C’è il rischio concreto di fare la fine di John Halderman, lo studente della Princeton University che alcuni giorni fa ha casualmente disattivato il software anti-copia di un cd della BMG, tenendo premuto il tasto Shift. Non appena la notizia è circolata in rete, la SunnComm Technologies, società produttrice del programma di protezione, ha annunciato una querela miliardaria nei confronti del giovane, accusandolo di aver fatto crollare le sue azioni in Borsa.

Una vicenda simile era accaduta un paio d'anni fa al professor Edward Felten, un altro studioso della Princeton University che aveva "craccato" una tecnologia di protezione sviluppata dalla Secure Digital Music Initiative. Il ricercatore in realtà aveva raccolto una sfida lanciata dalla stessa azienda, che aveva promesso un premio a chiunque fosse riuscito ad aggirare i suoi lucchetti. Peccato che Felten, presentando pubblicamente i risultati del proprio lavoro, si fosse reso complice delle possibili azioni di pirateria perpetrate grazie alle conoscenze da lui sviluppate.

E che dire della vicenda che vede protagonista l’associazione no-profit “Internet Archive”, che sta cercando di realizzare un gigantesco archivio online della storia della rete? Il suo portavoce Brewster Kahle ha chiesto ieri all’Ufficio governativo per il diritto d’autore un’apposita esenzione dalla normativa sul copyright che impedisce la riproduzione del software. In questo modo diventerebbe possibile archiviare programmi storici e non più utilizzati (come le prime versioni di Wordstar e Lotus Notes) per poterli rendere disponibili a ricercatori e studenti del futuro.

Se dal Copyright Office arrivasse un “no”, ci troveremmo di fronte alla perdita di un ingente quantitativo di scibile umano, che non potrà più essere usato a causa di una legge troppo restrittiva. Quelli che un tempo potevano essere considerati casi sporadici, sono diventati prove inconfutabili di quanto possano essere devastanti gli effetti collaterali del Digital Millennium Copyright Act. Promulgato nel 1998 dal governo statunitense per proteggere le opere sotto copyright a fronte delle nuove possibilità di copia e diffusione permesse dalla rete e dalle tecnologie digitali, il DMCA si è rivelato un provvedimento capestro che, invece di scoraggiare ladri e malfattori, ostacola il progresso dell’evoluzione tecnologica.

Chi si arrischia a violarlo, scardinando per esempio un programma di protezione, commette un reato federale sanzionabile con pene che oscillano tra 500.000 dollari e cinque anni di prigione. E poco importa se il “colpevole” siano studiosi, tecnici o semplici consumatori, mossi dall’intento di migliorare le prestazioni di un determinato software, scoprendone eventuali bachi. La legge non distingue tra scienza e reato. Ovviamente non manca chi ci guadagna: gli editori e i detentori dei diritti d’autore possono permettersi di pubblicare ebook, dvd o cd decidendo a priori le modalità del loro utilizzo da parte del consumatore.

In altre parole: posso comprare un cd, ma non ascoltarlo dove voglio (sul pc, per esempio) e guai se tento di copiarlo. Se lo faccio, compio un reato penale perseguibile anche dalla legge italiana. Decisamente un po’ troppo, per decidere di immolarsi sul campo della ricerca tecnologica. Ecco perché da alcuni mesi stanno sorgendo come funghi movimenti politici e d’opinione che reclamano un ammorbidimento delle restrizioni imposte dal DMCA. Tra i più noti, spiccano il gruppo californiano di JP Justice e l’iniziativa Creative Commons, un progetto che cerca di elaborare forme di copyright alternative che tutelino la proprietà intellettuale dell’autore, senza ledere il fair use (l’uso consapevole) del prodotto culturale da parte del consumatore.

Ma è bene non farsi illusioni su eventuali riforme del DMCA. Il governo americano è sempre più pressato dalle grandi major del software e della musica, terrorizzate dall’idea di perdere il controllo sui propri prodotti e galvanizzate dal fatto di avere a disposizione una legge per minacciare indistintamente scienziati, utenti e consumatori. Il progresso tecnologico-culturale può attendere. Prima bisogna fare fatturato.

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