Da Il Sole 24 Ore del 02/10/2003
Scende ancora l'occupazione negli Stati Uniti
di Mario Platero
NEW YORK - L'economia cresce, ma il settore manifatturiero resta debole. Ieri l'indice Ism ha mostrato che il comparto continua ormai da tre mesi in un lento processo di crescita, ma l'indice per il mese di settembre è caduto a 53,7 da 54,7 di agosto. Un dato superiore a quota 50 indica espansione, ma il fatto che, pur restando in territorio superiore a quota 50, si sia registrato un indebolimento quando l'economia nel suo insieme invece sta crescendo a ritmi sostenuti, preoccupa. Anche perché è dal settore manifatturiero che ci si aspettava una ripresa dell'occupazione, l'anello debole fra gli indicatori economici che ci offrono un quadro della congiuntura americana. Ma l'indice sull'occupazione è sceso ieri da quota 45,9 a quota 45,7, e si tratta del 36° mese consecutivo in cui l'occupazione nel settore subisce un ridimensionamento. Si aggiungano altri due dati. Il primo giunto ieri da Challenger, un gruppo privato, ha stimato che in settembre sono stati annunciati tagli di posti di lavoro per 76mila unità contro le 79mila unità di agosto. Certo, c'è un leggerissimo miglioramento, ma nulla su cui poter costruire un quadro tendenziale. Dal settore auto inoltre si è saputo che le intese sindacali consentiranno una riduzione di 50mila posti di lavoro in tre anni. E la Ford ha già annunciato che licenzierà 12mila persone in 12 mesi. Un analogo annuncio è ora atteso dalla Chrysler. Non vi è dunque, a breve, uno spiraglio su cui poter intravedere un cambiamento di direzione in un settore che ha bruciato in quattro anni oltre 700mila posti di lavoro. In un contesto ciclico normale i posti perduti venivano recuperati ai primi sentori di ripresa, per far fronte agli attesi aumenti di domanda. In questo ciclo però le condizioni sono molto diverse. Si sta registrando uno spostamento strutturale del livello di occupazione nel settore per il verificarsi di due fenomeni. Il primo è dato dall'aumento di produttività, grazie all'innovazione tecnologica, il secondo dall'emigrazione di molti posti lavoro in paesi emergenti come la Cina, l'India, il Messico o Taiwan. Per la combinazione di questi due fenomeni gran parte degli economisti ritengono che una buona parte di quei posti lavori perduti non sarà recuperata come capitava in passato. Ieri poi si è anche avuto un calo dell'indice produttivo, sceso da quota 61,6 a quota 57,3. È in questo contesto scoraggiante sul fronte occupazione che ha assunto ieri particolare importanza un rapporto del Bureau of Labour Statistics. Il rapporto dà uno spaccato dettagliato sui problemi di questa ripresa sul fronte occupazione: le imprese ormai hanno smesso di licenziare su un piano macroeconomico, ma stentano a fare nuove assunzioni. Negli ultimi tre mesi del 2002 sono stati eliminati 7,8 milioni di posti di lavoro e ne sono stati creati 7,7. Una perdita netta di 100mila unità è preoccupante. Tanto che, per l'anno scorso, si è registrato il minor numero di nuovi posti di lavoro dal '95, e se poi si aggiusta il dato alle dimensioni dell'economia, il dato diventa il peggiore dal 1990. Questo problema potrebbe avere conseguenze se non sarà corretto. La «jobless recovery» in sostanza dovrà diventare una «job creating recovery» come è sempre successo in passato. “Dovrà” perché se questo non dovesse succedere vi saranno rischi per l'economia nel suo insieme: se non dovesse aumentare il numero degli occupati i consumi potrebbero indebolirsi e conseguenze negative, come quella che abbiamo visto martedì quando si è avuta una caduta della fiducia dei consumatori proprio per fattori legati all'occupazione, si sentiranno anche sul tasso di crescita. Infine perché, anche se il tasso di crescita dovesse tenere, se la Casa Bianca si presenterà alle urne per il rinnovo del mandato con una diffusa percezione di precarietà sul fronte occupazione avrà un grave problema elettorale in più da risolvere.
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