Da La Repubblica del 08/08/2003

Le sentenze aggiustate della lobby di Previti

di Giuseppe D'Avanzo

COME sempre, quando si incappa in Cesare Previti e negli interessi patrimoniali del suo Capo, la questione è affrontare il catalogo delle verità rovesciate. Per andare al sodo. È al lavoro a Milano, come dice Sandro Bondi (portavoce di Forza Italia), «un'associazione a delinquere a tini eversivi, costituita da una parte della magistratura con lo scopo di sovvertire le democratiche istituzioni repubblicane»? O, al contrario, sono stati al lavoro a Roma, almeno fino alla metà degli Anni Novanta, giudici che hanno venduto sentenze e avvocati che le hanno comprate: una consorteria di barattieri, per dir così, che ha cancellato ogni parvenza di equità nella giustizia amministrata nella Capitale? (Mettiamo tra parentesi, per una volta, che il baratto ha premiato gli affari del capo del governo e dimentichiamo che uno degli «avvocati dei miracoli» sia Cesare Previti).

Sandro Bondi dice eversiva, in linea di principio, ogni mossa giudiziaria che possa verificare, alla luce di una «notizia di reato» (s'intende), la correttezza dei comportamenti di alcuni signori «unti» dal voto popolare. E' un'idea non molto diversa da quella coltivata da alcuni giudici di Roma che si sono considerati, prima che «custodi del diritto», protettori del potere. Alcuni lo hanno fatto per guadagnare benemerenze da scontare in alti incarichi. Altri, con maggiore brutale avidità, per lucrare denaro. Centinaia di milioni. Miliardi. In questa luce, le motivazioni della sentenza che ha condannato tre avvocati (Previti, Acampora, Pacifico) e due giudici (Metta, Squillante), rei di aver manipolato le sentenze ImiSir e Lodo Mondadori, è una lettura molto istruttiva. Straordinaria cronaca italiana del potere (di ieri) sostenuta, al contrario delle sortite di Bondi (e di chi scrive di «manifesto di un contropotere»), da fatti, documenti e nomi.

Nomi. Carlo Sammarco, per farne uno. Presidente della Corte dell'Appello nei primi anni novanta. E' un buon amico di Giulio Andreotti (l'allora capo del governo farà il diavolo a quattro per averlo presidente della Consob, senza riuscirci). Festeggiò il suo eccellente incarico giudiziario in casa di un avvocato, per dire. E' solo un caso che l'avvocato fosse Cesare Previti, Carlo Sammarco ne è buon amico.

Sammarco definisce il suo «stile» di magistrato «riservato» improntato all'assoluta «non ingerenza e prudenza». Preferisce non presiedere nessuna causa importante perché, racconta, «i capi sono visti con sospetto... su di loro confluiscono influenze esterne, segnalazioni e spinte». Meglio che siano altri a presiedere, a meno che non siano in gioco interessi che sono a cuore del potere politico. Come quel giorno quando un avvocato, Claudio Di Pietropaolo, decide di «bivaccare» (espressione di Sammarco) dinanzi al suo studio a Palazzo di Giustizia. Voleva a ogni costo, un'istanza di sequestro delle Terme di Fiuggi per conto di Giuseppe Ciarrapico. E' la causa di appello sul "lodo Fiuggi". Ne è titolare il giudice Paolini (presto ricusato, lascerà il banco a Vittorio Metta). Purtroppo Paolini non c'è. E' a Pomezia (Latina) per una cerimonia ufficiale. Allora che s'inventa quel diavolo di Sammarco per «togliersi di torno» (sue parole) l'«avvocato invadente»? Chiama l'auto di servizio. Sale a bordo. Raggiunge Pomezia. Personalmente preleva Paolini alla cerimonia. Lo riporta al Palazzo di Giustizia, dove Pietropaolo continua a «bivaccare», e finalmente Paolini può provvedere sull'istanza. Non c'era altro modo, spiega Sammarco, «l'avvocato non voleva saperne, era di un dinamismo difensivo eccessivo e fastidioso».

Se questo comportamento così estraneo alla «non ingerenza» è stata un'eccezione nella vita professionale di Sammarco, non è stata la sola. Gli capita ancora quando la Corte d'Appello deve affrontare l'affare Mondadori. Sammarco «provvede personalmente a chiamare il presidente della I sezione della Corte, Valente» e gli chiede di «assegnare la causa Mondadori a un giudice poco impegnato».

Valente sceglie poi Vittorio Metta (in quel periodo relatore dell'ImiSir e del lodo Fiuggi).

A Sammarco capiterà ancora di affrontare qualche altra eccezione.

Accade che si debba valutare il risarcimento dovuto ai Rovelli. AI presidente del Tribunale di Roma, Carlo Minniti, le conclusioni dei periti appaiono eccessive. Decide di presiedere egli stesso la camera di consiglio per quell'affare. Purtroppo «ad horas» viene convocato al ministero di Giustizia per una riunione. In sua assenza, e contrariamente alle sue indicazioni, il tribunale decide. Ora il problema è: chi ha convocato quella strana e inutile riunione (tale parve a Minniti)? Il processo milanese non ne è venuto a capo. Qualche fatto è, comunque, certo. La riunione non fu convocata dal dirigente del ministero (Niutta, si chiamava), ma da uno dei «capi dell'ufficio» interessati a rivedere l'organizzazione logistica con l'entrata in vigore del nuovo codice (è il 4 aprile del 1989). I "capi dell'ufficio" erano tre (Filippo Verde, direttore al ministero; Renato Squillante capo dei gip, Carlo Sammarco, presidente della Corte d'appello), erano tutti in ottimi rapporti con Cesare Previti.

Fatti. Primi del 1993, il procedimento Imi-Sir è in Cassazione. E' assegnato alla I sezione civile. Il presidente del collegio, Mario Corda, redige per i colleghi un appunto riservato consegnato in busta chiusa. Il giudice affronta i problemi di diritto sollecitati dalla mancanza della procura speciale nell'istanza Imi (non c'è la procura agli avvocati che l'hanno firmata). Corda ritiene che sia possibile una modifica dell'orientamento giurisprudenziale, sfavorevole dunque ai Rovelli (occultamente difesi da Previti, Pacifico, Acampora). Il 9 marzo con una lettera anonima è spedita al presidente della cassazione Antonio Brancaccio la fotocopia dell'appunto riservato. Corda chiede di astenersi. L'astensione viene subito accolta.

Scrivono i giudici del Tribunale di Milano: «Pacifico e Rovelli si erano assicurati un capillare e minuzioso controllo su ciò che avveniva nelle stanze della Corte di Cassazione e questo dato, oggettivo e incontrovertibile sulla base dei documenti in atti, deve essere letto insieme a ciò che, altrettanto oggettivamente, accadde: uno dei giudici "sotto controllo" mette nero su bianco alcune riflessioni riservate agli altri giudici; che queste osservazioni lo rendono inviso ai Rovelli, per avere egli pensato di suggerire la rivisitazione del tema della decadenza dal deposito della procura alle liti; che il contenuto di queste osservazioni sia uscito dalla sfera dei legittimi destinatari e in seguito utilizzato, in forma anonima, per tacciare di parzialità il presidente Corda; che la dichiarazione di astensione di quest'ultimo, presentata a un contrariato Brancaccio, abbia avuto accoglimento seduta stante. Insomma: abbiamo, da un lato, una continua "osservazione" – chiesta da Rovelli a Pacifico ed attuata quantomeno tramite Meccariello (un impiegato) – della I Sezione Civile e, dall'altro, un intervento esterno, che solo un eufemismo può consentire di qualificare "di disturbo", tale da creare i presupposti per una dichiarazione di astensione da parte del presidente dei collegio, poi accolta. E, guarda caso, il giudice estromesso aveva proposto alla riflessione dei suoi giudici argomenti e soluzioni tecnico-giuridiche sfavorevoli ai Rovelli».

Documenti. Nei cento faldoni, è il foglio 18052. E' una ricevuta di un fax datato 9/8/1990, sequestrata nello studio di Attilio Pacifico. L'avvocato lo spedisce dal Beach Hotel a un tale Pasquale Musco. La ricevuta è spillata a un promemoria, datato 9 febbraio 1990. Nella prima parte si fanno considerazioni sulla «questione Enimont». La seconda affronta la questione della causa Imi-Sir, pendente in appello dinanzi al giudice Vittorio Metta. Il tema della perizia teneva ancora banco. E Musco era appunto il perito nominato dal Tribunale che ne concordava l'esito e gli argomenti con un avvocato (occulto) di una delle parti. II Beach Hotel è, infatti, uno degli alberghi frequentati da Attilio Pacifico a Montecarlo. Scrivono i giudici di Milano: «La conclusione è inevitabile: Pacifico era in rapporti anche con uno dei periti incaricati – a suo tempo – di "valutare" il gruppo Sir. II doti. Musco era, poi, certamente conosciuto anche da Previti e Acampora atteso che era il curatore del fallimento Caltagirone».

Nomi che ritornano. Se ci si ferma ai nomi presenti nella motivazione, il fallimento dei Caltagirone, la loro riabilitazione per via giudiziaria e il risarcimento ottenuto dall'Iccri (Istituto di Credito delle Casse di Risparmio) possono essere la pentola ancora coperta delle «baratterie romane». Non fosse altro che per i nomi di chi vi è coinvolto. (E se fosse questo il capitolo d'inchiesta che ancora giace nel fascicolo 9520/95/21 su cui Previti vuole ad ogni costo mettere le mani con il sostegno del ministro di Giustizia?).

Pasquale Musco (sodale di Pacifico) fu il curatore fallimentare dell'impero di Gaetano, Francesco e Camillo Caltagirone. I tre fratelli furono difesi da Cesare Previti, Giovanni Acampora e da quel Claudio Di Pietropaolo capace di schiodare, con il suo «dinamismo difensivo», Carlo Sammarco dal suo scranno per andare a pescare un giudice a Pomezia. Il giudice relatore della prima sezione civile della Corte di Appello di Roma, che ha revocato il fallimento, cancellato il crac, dichiarandone responsabile l'Iccri e condannando l'istituto al risarcimento dei danni (si parlò di 1.500 miliardi), fu Vittorio Metta. Inutile ricordare quanto cari fossero i fratelli Caltagirone al presidente Giulio Andreotti, nel 1991 ancora in sella al suo quarantennale potere.

Come è inutile, a luce di questi pochi fatti (solo alcuni) estratti dalle motivazioni milanesi, chiedersi se ci si debba occupare di «un'associazione per delinquere a fini eversivi costituita da una parte della magistratura» o di una consorteria togata corrotta da un ristretto circolo di avvocati che ha venduto la giurisdizione nella Capitale. Mentre è utile chiedersi se si vuole una magistratura capace di scacciare i mercanti dal tempio o tribunali senza regole, dove fatti e cose fluttuano a secondo dell'avidità del giudice, del prestigio e potere degli imputati, degli esiti di lavori invisibili di avvocati-maghi, sapientissimi nell'arte del «conosco chi può mettere a posto la cosa».

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