Da Corriere della Sera del 01/09/2003

L’ex capo del Pentagono Weinberger contrario all’ipotesi di un ruolo più attivo del Palazzo di Vetro: «Non ci ritireremo»

«Ma ricordate sempre che l’Onu non sa combattere le guerre»

di Ennio Caretto

A vent’anni di distanza, Caspar Weinberger ricorda come se fosse oggi la strage di marines a Beirut dell’83. Era il ministro della Difesa sotto il presidente Reagan, e non se l’è mai perdonata. «Ma la situazione di allora - sostiene - era completamente diversa da quella di oggi in Iraq. I marines non avevano un compito, stavano fermi all’aeroporto a fare da bersaglio ai terroristi. Io avevo chiesto al presidente di non mandarli, e dovemmo ritirarli in fretta. In Iraq, i soldati Usa, di cui ho appoggiato pienamente l’intervento, hanno invece una missione precisa e cruciale da svolgere: ricostruire il Paese, e farne una democrazia». Weinberger si dichiara certo che la porteranno a termine con onore, e solo a quel punto se ne andranno «se lo vorrà l’Iraq». E alla domanda se non avranno bisogno dell’Onu risponde seccamente di no: «Si parla di un nuovo mandato dell’Onu che coinvolga la comunità internazionale, ma non sono d’accordo. L’Onu ha molti meriti, ma non quello di sapere combattere una guerra».

Non sarebbe più facile se gli Stati Uniti contassero sul sostegno dei caschi blu o della Nato?
«Non dei caschi blu: possono servire a mantenere la pace ma in Iraq è ancora in corso una guerra strisciante, una guerriglia se si preferisce. Quanto alla Nato, secondo me dipende dai singoli Paesi: quanti più si schiereranno con noi in Iraq tanto meglio sarà. Ma voglio che si schierino a titolo diciamo personale, come ha fatto l’Italia, a cui siamo molto grati. Lo stesso vale per i Paesi islamici: sono i benvenuti, ma senza un mandato dell’Onu».

Eppure la maggioranza dei vostri alleati insiste che dovete ricorrere al Consiglio di Sicurezza.
«Ricorrere all’Onu significa accettare le condizioni di Francia, Germania, Russia e altri Paesi che si sono opposti alla guerra. Anche se si arrivasse a un accordo prima o poi i contrasti riesploderebbero. Non credo che l’amministrazione Bush sia disposta a rischiare».

L’Onu non sarebbe utile almeno in una seconda fase, quella della ricostruzione dell’Iraq?
«La ricostruzione è aperta a tutti, gli Stati Uniti sono pronti ad accettare qualsiasi contributo. Non c’è bisogno della burocrazia internazionale per riattivare l’industria del petrolio, o incentivare l’economia. Meglio lasciar fare all’iniziativa privata. Noi abbiamo fatto troppi sacrifici per rinunciare a gestire il dopoguerra in Iraq. Se non lo facessimo, le ripercussioni in Medio Oriente sarebbero gravi».

Alcuni media americani prevedono un Vietnam di sabbia, un vostro impantanamento in Medio Oriente come in Indocina quarant’anni fa.
«E’ assurdo. E’ vero che in Iraq abbiamo subito maggiori perdite dopo la vittoria che non in guerra. Ma il Vietnam del Nord era appoggiato dall’Urss e dalla Cina, e il pubblico americano era stanco del conflitto. In Iraq abbiamo solo a che fare con baathisti, terroristi di Al Qaeda e simili, e il nostro pubblico continua a sostenerci. Ci saranno altri scontri e attentati, ma prevarremo».

Non c’è il pericolo che la crisi si aggravi, restiate sempre più soli, e dobbiate ritirarvi?
«Lo escludo. Gli Stati Uniti non abbandoneranno l’Iraq. Non lo hanno liberato per lasciarlo cadere nel caos o per consegnarlo agli estremisti islamici. Abbiamo risorse e forze più che sufficienti per garantirne la sicurezza e la ricostruzione. Qui si fa dell’allarmismo gratuito: quando un regime cade, certi sussulti sono inevitabili. Col tempo la situazione si normalizzerà».

Agli occhi di gran parte del mondo arabo non siete una potenza occupante?
«Se vuol dire che gli iracheni non collaborano con noi, si sbaglia. Non sono antiamericani. Stanno uscendo solo adesso dall’incubo del terrore di Saddam. Incominciano ad assaporare la libertà. Gli attentati sono diretti anche contro di loro, al fine di spaventarli».

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