Da La Repubblica del 28/07/2003

Rottura nell’anniversario della Moncada dopo le sanzioni diplomatiche della Ue

Il colpo di coda del dittatore

Castro sfida l’Europa: non voglio aiuti da chi attacca Cuba sui diritti umani

di Vittorio Zucconi

NON gli rimane che l’orgullo, l’orgoglio, l’ultimo bene ancora abbondante a Cuba, nel crepuscolo di un’avventura politica sfatta e suicida al punto di mordere anche l’unica mano che ancora sfama un’isola condannata a campare ormai di poco riso. Dal balcone dei ricordi, dal “Cartel della Moncada”, la casermetta nella Sierra dell’esercito di Fulgencio Batista dove 50 anni or sono cominciò la sua avventura con un assalto fallito, un Fidel che farebbe tenerezza se non facesse rabbia, ha proclamato di «Non avere bisogno dell’Europa».

Cuba saprà sopravvivere senza i soldi dell’Europa, che è ormai soltanto il cavallo di Troja dell’imperialismo yanqui», ha detto gonfiando il petto davanti a un battaglione di scolaretti delle elementari in camicina bianca e fuciletti a piumini che mimavano l’assalto alla caserma.
Anche questo proclama, come tutto ormai, anche per chi ha molto amato Cuba e i cubani oltre i disastri e la crudeltà autolesionista del castrismo, riempie di malinconia, nella agonia di un uomo che è visibilmente sopravvissuto al suo tempo e si muove nel limbo di una transizione senza approdo visibile oltre la fine del lìder più longevo su una poltrona di comando, il caballo, come i Cubani chiamano ancora Fidel. 11 vecchio stallone di 77 anni, ingrigito e acciaccato al punto di dover rinunciare anche ai suoi sigari “Cohiba”, ha voluto mostrare un ultimo scatto di orgullo mandando a quel paese l’Unione Europa. Lo avevamo irritato condannandolo perle continue violazioni dei più elementari diritti civili, per i 378 prigionieri politici Amnesty International), per la condanna a 25 anni di carcere di altri 75 dissidenti e per la fucilazione di tre uomini che avevano tentato di dirottare un traghetto e raggiungere in Florida i 480mila cubani della diaspora.
Nella realtà, e dopo 40 anni di un embargo americano che è l’immagine ideologica speculare della ottusità cubana e sono costati all’isola almeno 15 miliardi di dollari, senza l’Europa e il Canada, Cuba tornerebbe in fretta ai giorni tragici dell’89, quando prima Gorbaciov e poi Eltsin la buttarono a mare. Finirono i sussidi “fraterni” a Castro, gli odiati russi smisero di comperare zucchero a prezzi politici in cambio di petrolio e cereali scontati e la stupenda, struggente Habana, piombò nell’oscurità letterale. Elettricità centellinata, blackout ogni notte sul Malecon, l’Habana Vieja, il Porto, il Vedado, che regalavano al viaggiatore che arrivasse per nave, davanti al castello del Morro, la sensazione angosciosa di entrare in una città in guerra.
Guerra fu, infatti, anche dentro la dirigenza cubana, tra coloro che volevano seguire la strada di Gorbaciov ed Eltsin e i conservatori guidati dal successore designato, Raoul Castro, terrorizzati di fare la fine di Gorbaciov.
Il compromesso finale, voluto dal Fidel, fu una mezza riforma, una mezza apertura, un abbozzo di timidissima privatizzazione (il 78% dell’economia è statale, il 22% semiprivata) e soprattutto fu la scelta che ha definitivamente sfasciato quello che ancora restava del sogno, la scelta di permettere a tutti di possedere valuta straniera, senza fare domande. Cominciò allora la terza e ultima fase della revolucion, la vecchiaia, dopo l’infanzia ideologica dei Guevara e la triste maturità della satellizzazione russa, la fase dei “castrodollari” e dell’ormai insanabile distinzione di reddito e quindi di classe, tra le masse che guadagnano l’equivalente in pesos di 20 dollari al mese e devono subire i razionamenti nei negozi di Stato, e chi invece ha la possibilità di arraffare valuta e di comperare tutto, ai prezzi di mercato internazionale. In cambio di servizi ai turisti, negli hotel, nelle spiagge, nei ristoranti. O in cambio di se stesso, nelle strade, bambini compresi.
Ma fu l’Europa, Spagna, Germania, Italia, Olanda in testa e poi Canada e ora, un poco, Cina, insieme con la diaspora Cubana con le sue rimesse ai parenti bloccati in patria, a mettere i soldi che permisero l’avvento dei “castrodollari’ e oggi dell’euro. Tra continue oscillazioni del governo nordamericano, incerto se spalancare la porta a commerci e viaggi che avrebbero certamente accelerato il disfacimento del regime, o se continuare a subire il ricatto del blocco di voti in Florida per sfruttare anche il comodo fantasma della “minaccia rossa”, l’Habana aveva conosciuto il suo piccolo Rinascimento degli anni ‘90. Ma fino al settembre del 2001, quando l’attentato contro le Torri disseccò la linfa del turismo. La crisi finanziaria, sulla quale sempre pesano i 22 miliardi di. dollari di debiti pregressi con i russi, ha provocato un ritorno del dissenso. Il ritorno del dissenso ha scatenato la repressione, anziché l’evoluzione di un regime ormai troppo pietrificato per cambiare. La repressione ha provocato la condanna internazionale. La condanna internazionale ha provocato la reazione dello stallone grigio.
Non sarebbe stato Fidel Castro, se avesse accettato di chinare la testa davanti a quell’Europa che sfama i suoi 11 milioni di concittadini. Non sarebbe stato Fidel Castro se avesse capito che aveva ragione Winston Churchill quando osservava «che i dittatori risolvono tutti i problemi di un Paese meno il più grave, cioè se stessi» e se avesse preparato con lucidità, umiltà e intelligenza, quel dopo Fidel che non sarà l’esecrato Raoul a garantire e che esporrà l’isola al sacco dei cubani esiliati. Lui, quello dei missili nucleari, ha estratto dalla fondina l’unica arma che gli rimane, l’orgullo, e ha sparato il suo ultimo colpo contro il mondo, efficace come i piumini sparati dagli scolaretti in camicia bianca e fazzolettino rosso.

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