Da Corriere della Sera del 08/08/2003
Stato di diritto e veleni diffusi
Il dovere dei giudici e quello dei politici
di Sergio Romano
Nella migliore tradizione giuridica i tribunali non sono cattedre di pubblica e privata moralità, non fanno il ritratto caratteriale dell' imputato, non alludono alle contestazioni polemiche che hanno accompagnato il processo, non rivendicano l' imparzialità della corte, non stabiliscono raffronti storici tra gli atti presi in esame e altri analoghi commessi in un più lungo arco di tempo. Tali argomenti appartengono generalmente allo stile della giustizia militante e a quello dei tribunali speciali dove la condanna deve essere esemplare e la sentenza è una pietra o un mattone per il cantiere dove si costruisce lo Stato etico. Nei buoni sistemi giuridici, invece, la motivazione della sentenza è un documento freddo e grigio dove si descrivono i fatti, si elencano le prove, si verificano le responsabilità e si applicano le pene previste dal codice. E' tanto più credibile quanto più è distaccata, imperturbabile, stilisticamente anonima. Valutata con questi criteri, quella di Milano nel processo contro Cesare Previti e altri imputati pecca per eccesso e per difetto, dice contemporaneamente troppo e troppo poco. Dice troppo perché molte affermazioni non si addicono alle funzioni e alle competenze di un giudice. Quali conoscenze storiche, quale sacerdozio morale autorizzano un tribunale ad affermare che questa «gigantesca» opera di corruzione è «la più grande nella storia dell' Italia repubblicana»? E' opportuno che un tribunale si serva di una motivazione per deplorare gli attacchi subìti in corso d' opera? E' questo il luogo in cui il giudice ha il diritto di difendere polemicamente il suo operato? Non vi è forse in queste parole un conflitto d' interessi, simile a quello di Silvio Berlusconi quando si serve della sua cattedra di premier per difendersi nelle vicende in cui è imputato? Ma la motivazione, al tempo stesso, pecca per difetto. Una volta adottata la linea del giudizio storico e morale, il tribunale avrebbe dovuto chiedersi perché vicende così gravi siano state possibili in Italia nel corso di questi anni. Il Foglio non ha torto quando afferma, in un editoriale di ieri, che i fatti giudicati a Milano sono manifestazioni di una illegalità diffusa in cui sono stati coinvolti per molti anni uomini politici, imprenditori, finanzieri, persino alcuni magistrati. Il finanziamento illecito dei partiti (quello di una potenza straniera per il Pci e quello degli appalti truccati per altri) ha avvelenato l' intera società italiana. Ha creato complicità inconfessabili tra politica ed economia. Ha instaurato una contabilità perversa in cui ogni favore andava ripagato. Ha incitato molti imprenditori a perseguire impunemente progetti che sarebbero stati, in una economia di mercato, inconcepibili. Ha autorizzato la burocrazia a chiudere gli occhi o, peggio, a «monetizzare» le proprie funzioni. E ha prodotto una impressionante cascata di comportamenti illeciti. Ho sempre pensato che un fenomeno così vasto non potesse essere affrontato con gli strumenti della giustizia ordinaria e che la sua cura dovesse essere principalmente politica. Bettino Craxi, che in Parlamento aveva cercato di analizzarlo, fu poi accolto da un lancio di monetine. Oggi forse, dopo l' esperienza di un decennio, verrebbe ascoltato. Mi chiedo se Berlusconi, anziché continuare a denunciare teoremi e complotti, non abbia interesse a seguirlo sulla stessa strada e a promuovere una specie di lavaggio nazionale. Nessuno meglio di lui potrebbe, come vecchio imprenditore, parlare di quegli anni con maggiore competenza. Certo, se decidesse di farlo, continuerebbe a essere accusato di «interesse privato in atti d' ufficio». Ma uscirebbe dal pantano in cui rischiamo di affondare e volerebbe più alto. Molti gliene sarebbero grati.
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