Da Famiglia cristiana del 16/02/2003

Le motivazioni autentiche dell'intenso impegno vaticano

Lavorare per rendere inevitabile la pace

di Alberto Bobbio

Quelle che stiamo vivendo sono ore cruciali per la pace. Si moltiplicano le iniziative di quanti non si arrendono di fronte all’inevitabilità del conflitto. Primo fra tutti Giovanni Paolo II.

«Occorre moltiplicare gli sforzi. Non ci si può fermare», ha detto il Pontefice nell’udienza concessa l’8 febbraio scorso ai partecipanti al convegno sul tema "Il Vangelo della pace", nel 35° anniversario della Comunità di Sant’Egidio, «di fronte agli attacchi del terrorismo, né davanti alle minacce che si levano all’orizzonte. Non bisogna rassegnarsi, quasi che la guerra sia inevitabile».

Gli ha fatto eco il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano: «Dobbiamo impegnarci a realizzare le premesse di una pace "giusta e duratura", affinché non sia la guerra ma la pace a essere concretamente inevitabile».

Un sogno, un’utopia, una speranza impossibile? Niente affatto, ha ricordato il cardinale Camillo Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana: «Dobbiamo lavorare con realismo cristiano, con fiducia in Dio, mentre ci sono questi rischi per l’Irak». Una scelta che è dunque realismo, saggezza, lungimiranza. Perché la storia insegna che dalle guerre non nasce la pace. I conflitti gettano nella cronaca del mondo i semi di nuove guerre.

In queste settimane molti hanno parlato della pace come di un traguardo ormai irraggiungibile. E hanno accusato chi si ostina a ritenere che la guerra sia ancora evitabile di praticare un pacifismo sterile e parolaio. Potrà essere forse così per alcuni, non certo per il Papa, che non si arrende, perché ritiene che la guerra, qualsiasi guerra, sia una «sconfitta per l’umanità».

Ed ecco allora l’intenso lavoro diplomatico della Santa Sede, che non si schiera per questa o quella parte politica, ma solo in difesa della pace, unica ragionevole risposta, per l’oggi e il domani, ai problemi del Pianeta.

Ricordando la Pacem in terris, scritta da Giovanni XXIII quarant’anni fa, all’indomani di un’altra crisi che fece tremare il mondo, quella di Cuba, papa Wojtyla ribadisce: «La pace non è tanto questione di strutture, quanto di persone. Strutture e procedure di pace – giuridiche, politiche ed economiche – sono certamente necessarie e fortunatamente sono spesso presenti. Esse tuttavia non sono che il frutto della saggezza e dell’esperienza accumulata lungo la storia mediante innumerevoli gesti di pace, posti da uomini e donne che hanno saputo sperare senza cedere mai allo scoraggiamento. Gesti di pace nascono dalla vita di persone che coltivano nel proprio animo costanti atteggiamenti di pace» (Pacem in terris, 9).

Di questi gesti di pace abbiamo più che mai bisogno oggi, mentre i venti di guerra soffiano impetuosi. E nessuno può sottrarsi all’imperativo di battersi perché la guerra sia evitata. Non i capi delle Nazioni che hanno nelle loro mani i destini dell’umanità, non l’Onu, che in questa crisi deve dimostrare di poter davvero aspirare a svolgere quel ruolo di "Governo mondiale" cui troppe volte ha abdicato.

Ma questo impegno chiama a raccolta tutti gli uomini, di ogni colore e religione, e i cristiani in primo luogo, invitati a "gesti" e preghiere che illuminino le tenebre di queste ore difficili. Ha detto il Papa: «Non si può recitare il Rosario senza sentirsi coinvolti in un preciso impegno di servizio alla pace» (Angelus del 9 febbraio).

E a chi pensa che questa è ormai una "missione impossibile", ripetiamo le parole del cardinale Etchegaray, inviato del Papa a Baghdad, che, rileggendo nel diario dell’attualità il Vangelo di Luca («Nulla è impossibile a Dio»), ha affermato: «Niente è impossibile quando ci si affida a Dio e si cammina con Lui».

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