Da L'Espresso del 26/06/2003

Lo spettro della bancarotta

Oppio, burka e terrorismo

Gli scarsi aiuti internazionali. Le province che non pagano le tasse. La guerriglia dei talebani. In un paese senza cibo, medicine e servizi primari.

di Barbara Schiavulli

Hamid Karzai, presidente dell’Afghanistan sa bene che il suo Paese è come un pozzo dove ogni goccia che cade evapora prima di toccare il fondo. Karzai uomo compito, elegante, pacato pronto al dialogo e al compromesso piuttosto che alla lite, a un anno dalla sua conferma di capo della Repubblica islamica, ha dovuto rimboccarsi le maniche, scoprire i polsi e gli artigli.

L’Afghanistan è sull’orlo della crisi. Non che non sia un paese abituato a vivere situazioni di emergenza: 23 anni di guerre, secoli di invasioni, regimi duri e sanguinari. Niente di nuovo in quell’Afghanistan senza strade, senza luce, senza acqua, con uno dei più alti tassi di mortalità infantile al mondo. Niente di nuovo in un paese ricco di gas e di gente traboccante di un desiderio selvaggio di vivere. L’Afghanistan sull’orlo della bancarotta, semplicemente, non ce la fa. Un pozzo, dunque, dove i soldi continuano ad arrivare: ma, pochi o molti che siano, non portano mai a una vera svolta. Sono trascorsi 15 mesi dalla rimozione dei talebani. All’epoca Karzai, sostenuto dagli americani, era stato chiaro: « Dovete aiutarci a ricostruire l’Afghanistan». Un appello che il mondo aveva accolto. Il Paese, pacifico solo sulla carta, sembrava pronto a prendere quanto ci fosse di conveniente. Un anno dopo non è cambiato molto. E stato invaso da centinaia di Ong, dai funzionari di diversi dipartimenti delle Nazioni Unite, da investitori americani, europei e asiatici. Ma, nonostante gli sforzi, la sicurezza si sta lentamente deteriorando. I talebani sono protagonisti di una guerriglia che colpisce alla spicciola nel sud. E i rapaci signori della guerra, gli stessi uomini che hanno aiutato le truppe americane a sbarazzarsi dei talebani e di Al Qaeda, continuano a combattersi l’un l’altro, raccogliendo immense fortune (per lo più grazie alla droga) e indebolendo l’autorità di Karzai.

I conti non tornano più da tempo. Il Paese ha ricevuto un miliardo e mezzo di dollari in aiuti stranieri dalla caduta dei talebani, spesi subito per progetti di ricostruzione immediata e di emergenza umanitaria. Nel gennaio 2002, durante un incontro a Tokyo, la comunità internazionale aveva promesso 5,1 miliardi di dollari, da consegnare entro il giugno del 2004. Solo un terzo di quello che gli esperti afgani pensano sia necessario per rimettere in piedi il Paese. Poco è arrivato allo Stato che per mesi non è riuscito a pagare i salari degli impiegati statali, tra cui 100 mila soldati del nuovo esercito nazionale. Senza contare i 50 milioni di dollari che servono per le elezioni che si terranno nel giugno del 2004.

I soldi dei paesi donatori non sono gli unici a giungere con il contagocce nelle casse dello Stato. Karzai ha problemi anche con i governatori delle sue 12 province, alcune tuttora comandate dai signori della guerra (e baroni della droga). Karzai, il cui potere non si estende molto al di fuori dei confini della capitale, non è riuscito a ottenere dai governatori le tasse del nuovo anno finanziario cominciato a marzo. Ha minacciato di dimettersi e di invocare una nuova Loya Girga, prevista, invece, per il giugno dell’anno prossimo. Ha mandato Asharaf Ghani, ministro dell’Economia, a raccogliere personalmente i soldi delle province, mentre lui si è avventurato in Occidente per sollecitare gli alleati europei a qualche nuova iniezione di contante. Dalle province sarebbero dovuti arrivare 600 milioni di dollari: ne sono giunti a destinazione solo 70. Ismail Khan, dispotico e ricco governatore di Herat ha dato al ministro Ghani 20 milioni di dollari; in contanti perché non c’è ancora un sistema bancario operativo. Mentre Abdul Rashid Dostum, padrone della provincia di Mazar i-Sharif, ha rifiutato qualsiasi versamento al governo centrale; come ritorsione, da vice ministro della Difesa è stato declassato a semplice consigliere. La provincia di Dostum include una delle rotte più importanti per il commercio con l’Uzbekistan. Attraversata da centinaia di camion che portano merci dall’Asia in Afghanistan, è il luogo dove vengono incassate ogni giorno le tasse d’importazione. Ammontano a 200 mila dollari, metà dei quali vanno a Dostum, mentre il rimanente viene diviso per pagare due milizie rivali Jamiat e Hezb i Wahad, il prezzo di una certa pace personale nella regione. Nelle ultime settimane sono arrivati 150 milioni di dollari dalla Asian Development Bank, un anticipo su un prestito di 610 milioni per lo sviluppo di strade, energia elettrica e infrastrutture per lo sfruttamento del gas naturale. Anche la Banca Mondiale ha appena approvato 59,6 milioni di dollari per l’emergenza sanitaria nelle campagne. Altri 317 milioni di dollari arrivano anche dal World Food Program per sfamare la popolazione, soprattutto i profughi rientrati dopo la guerra. Anche se negli ultimi tre mesi sono state registrate 3.500 proposte di investimento, dai 20 mila ai 180 milioni di dollari, per un po’ di denaro che arriva, tanto se ne va. Il gruppo Luis Berger, un’azienda americana che si occupa della costruzione della strada Kabul-Kandahar-Herat (1.100 chilometri da costruire in tre anni), ha annunciato che i 180 milioni di dollari garantiti da Usa, Giappone e Arabia Saudita, basteranno a ricostruire solo un pezzo di strada da Kabul a Kandahar. Del resto, dopo sei mesi è stato completato il 2 per cento del lavoro.

Non è andata meglio con i telefoni. «Prevediamo di coprire l’area di Kabul entro fine giugno e l’Afghanistan entro fine anno», spiega Curt Laird, direttore amministrativo della Telecom Development Company Afghanistan: «Ma solo per approvare il contratto ci sono volute 76 firme di impiegati statali». E relative mance. In Afghanistan manca ancora un corpo dileggi organico in grado di regolare anche la vita economica: così, burocrazia e corruzione fanno e disfanno ciò che vogliono.

I problemi di Karzai non sono tutti interni: il Paese non ha avuto lo stesso trattamento degli altri Stati usciti da un conflitto. Secondo un rapporto dell’organizzazione umanitaria Care, l’Afghanistan ha ricevuto la più bassa cifra pro capite di aiuto economico. Se in Kosovo arrivano ogni anno circa 250 dollari pro capite, in Afghanistan si è fermi a 42 dollari. Per questo Ajmal Ghani, economista e cugino del ministro dell’Economia, avverte: «Il Paese rischia sempre più di trasformarsi in uno Stato narcoterrorista, producendo e aumentando sia l’oppio che i terroristi».

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