Da La Repubblica del 14/07/2003

Se il mercato scheda la salute del cittadino

di Stefano Rodotà

UMBERTO Veronesi ha ancora recentemente richiamato l’attenzione sull’importanza grandissima degli esami che possono consentire la scoperta precoce di un cancro al seno, accrescendo così le possibilità di completa guarigione. Pochi giorni prima una donna inglese aveva rivelato di essersi vista rifiutare un’assicurazione sulla vita perché la società assicuratrice aveva scoperto proprio una sua predisposizione a quel tipo di cancro.

Il rapporto strettissimo tra le due notizie è evidente. Solo se verrà garantita l’assoluta riservatezza di questo tipo di informazioni personali, le donne potranno raccogliere con fiducia l’invito a sottoporsi regolarmente agli esami cimici. Non è un’ipotesi astratta. Un paio di anni fa, negli Stati Uniti, gli amministratori di uno Stato scoprirono con sorpresa che il 30 per cento delle donne alle quali era stato offerto gratuitamente il test per il cancro al seno non avevano raccolto l’invito. Indagando sulle ragioni del rifiuto, si scoprì senza fatica che tutte temevano che i dati ottenuti grazie al test potessero finire nelle mani di datori di lavoro o di assicuratori, con il rischio di essere poi discriminate nei rapporti di lavoro o in occasione della conclusione di contratti di assicurazione.

Quelle donne hanno compiuto una “scelta tragica”. Al bivio tra la tutela della salute e il rischio di perdere il lavoro o di non essere assicurate hanno sacrificato proprio il bene che ci appare più importante. Si pensa di poter meglio sopravvivere in una tragica ignoranza, con la speranza di non ammalarsi, mentre la perdita del lavoro o il rifiuto dell’assicurazione hanno immediati effetti negativi sull’esistenza quotidiana.

Si coglie così il nesso tra forte tutela della privacy e possibilità di godere dei benefici delle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Troppe volte superficialmente presentata come un impaccio o un ingombro, la privacy si rivela come una condizione necessaria per assicurare il pieno rispetto dei diritti fondamentali e l’eguaglianza tra le persone. Non a caso l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea vieta ogni discriminazione fondata sulle “caratteristiche genetiche”.

Proprio le grandi opportunità offerte dalla genetica spingono a raccogliere, spesso in maniera non meditata, qualsiasi dato genetico: ora sottolineando che questo permetterà a ciascuno di beneficiare di farmaci su misura, ora ingigantendo le possibilità di prevedere e prevenire diverse malattie anche grazie a screening di massa cominciando da tutti i neonati (è quel che si avvia a fare il governo inglese), ora sostenendo che i dipendenti saranno tenuti lontani da lavori incompatibili con le loro caratteristiche genetiche, ora enfatizzando la possibilità di più rapida e sicura scoperta degli autori di molti crimini. E se invece scoprissimo che la farmacogenomica impoverisce l’attenzione per la particolare condizione umana del paziente, che le raccolte di massa di dati genetici possono determinare discriminazioni, che i datori di lavoro escludono gli aspiranti all’assunzione di cui si presume una minor resistenza o una maggiore propensione ad ammalarsi, che si può abusare dei dati raccolti per fini di giustizia o di polizia? L’invito a non cedere all’ottimismo scientifico e tecnologico vale particolarmente nella materia dei dati genetici. Questi si distinguono da ogni altra informazione personale per almeno tre caratteristiche. Sono costitutivi della nostra identità più profonda. Hanno una attitudine “predittiva”, che non dev’essere enfatizzata sostenendo che nei geni è integralmente scritto il nostro futuro, ma che certamente consente di ricavare elementi importantissimi su predisposizioni, rischi di ammalarsi. Sono comuni a tutti gli appartenenti allo stesso gruppo biologico questo vuol dire che, conoscendo le informazioni genetiche riguardanti una persona, si hanno elementi di conoscenza anche sui suoi genitori, figli, fratelli e sorelle.

Non v’è bisogno, allora, di evocare Aldous Huxley e il suo “Mondo nuovo” per rendersi conto dell’incidenza profonda che la raccolta e l’utilizzazione dei dati genetici possono avere sulle nostre organizzazioni sociali. I costi e i benefici di queste operazioni devono essere attentamente valutati, anche per sfuggire alle operazioni totalizzanti di chi guarda alla genetica come alla nuova bacchetta magica o di chi, invece, scorge in essa solo l’estrema e drammatica manipolazione della natura umana. La discussione intorno al “futuro non umano” dilaga, e coinvolge gli studiosi più diversi, Habermas e Jonas, Zizek e Sloperdijk e, purtroppo, Fukuyama.

Senza nulla togliere all’importanza della discussione sui fondamenti, è bene non allontanarsi troppo dai dati reali, e il caso indicato all’inizio è certamente tra i più eloquenti. E questo tipo di analisi ci dice che l’uso sociale della genetica esige un quadro istituzionale adeguato.

Bisogna stabilire, in primo luogo, che le informazioni genetiche possono essere utilizzate esclusivamente per tutelare la salute dell’interessato e, con adeguate garanzie,per finalità di ricerca e di sicurezza, senza tuttavia imboccare la via delle schedature genetiche di massa. Esclusione, quindi, di ogni utilizzazione a fini economici, si tratti delle assunzioni o delle assicurazioni: questa è, oggi, la linea seguita dalla normativa italiana e dalla quasi totalità delle legislazioni europee.

L’importanza di limitazioni severe al ricorso indiscriminato alle informazioni genetiche diventa più evidente se si considerano sistemi che, come quello degli Stati Uniti, affidano all’assicurazione privata la possibilità di tutelarsi contro la malattia o considerano l’esistenza di un’assicurazione sulla vita come la condizione necessaria, ad esempio, per ottenere un mutuo per l’acquisto di una casa. Se si ammette l’uso indiscriminato di quelle informazioni, si avvia un meccanismo di esclusione di molti soggetti, di null’altro responsabili se non di avere una determinata costituzione genetica. Può davvero nascere una “sottoclasse”, una categoria di non assicurabili e di non assumibili. Di questo bisogna tenere ben conto quando si parla di abbandonare, o di ridurre drasticamente, il sistema della sanità pubblica per lasciare spazio alle assicurazioni private.

Se non si crea un quadro istituzionale in grado di evitare abusi dei dati genetici, vi è poi la concreta possibilità di veder nascere una «concorrenza genetica» ed una «eugenetica di mercato». I soggetti in possesso di una eccellente situazione genetica potrebbero chiedere agli assicuratori condizioni particolarmente favorevoli. Questo rischio non è ipotetico, tanto che molte legislazioni già vietano la possibilità stessa di offrire assicurazioni a condizioni particolarmente vantaggiose a chi è in grado di esibire test genetici favorevoli.

L’eugenetica di mercato può manifestarsi, ad esempio, quando appare prevedibile che la nascita di una persona con determinate caratteristiche genetiche abbia come conseguenza un rifiuto di assicurazione. Di nuovo non si tratta di ipotesi teoriche. Fin dal 1992 sono documentati casi specifici di rifiuto dell’assicurazione malattia fondati appunto su dati genetici: ad esempio, la nascita di un figlio affetto da fibrosi cistica ha avuto come effetto l'impossibilità di stipulare un contratto di assicurazione da parte dei genitori e di sorelle e fratelli pur non affetti dalla malattia. E’ evidente che questa concreta possibilità può condizionare le scelte procreative, rinunciando alla procreazione o interrompendo la gravidanza in presenza di determinate caratteristiche genetiche.

L’ordine sociale non può essere affidato a derive scientifiche e tecnologiche. E questo non ha nulla a che vedere con veri o presunti atteggiamenti anti-scientifici. I benefici grandi della migliore conoscenza di noi stessi, che la genetica assicura, possono davvero essere diffusi solo se saranno rigorosamente disciplinati gli usi sociali di quella conoscenza.

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