Da Famiglia cristiana del 31/07/2003

La situazione dopo la morte dei figli di Saddam

La resa dei conti

Il "colpo" politico e propagandistico dell’uccisione di Qusay e Uday non sembra influire molto sulle operazioni in Irak: la guerriglia colpisce, i problemi restano.

di Alberto Chiara, Fulvio Scaglione

Ora che si è posata la valanga di retorica sulla morte di Uday e Qusay Hussein, figli di Saddam e suoi primi collaboratori nel gestire quel regime del terrore, e sulla gogna mediatica cui sono stati esposti i loro corpi deformati dalle pallottole, possiamo provare a ragionare anche sui fatti.

Stupirsi della decisione di Rumsfeld, ministro della Difesa Usa, che ha voluto diffondere le immagini dei due aguzzini morti (ma non quella del figlio quattordicenne di Uday, ucciso nella stessa occasione) è da ingenui. Da tempo la Casa Bianca chiede per sé "diritti" e "libertà" che nega agli altri: dai 650 prigionieri di Guantanamo, detenuti in totale violazione dei diritti internazionali, alle proteste che, nei giorni di guerra, si levarono da Washington contro le Tv arabe che mostravano i cadaveri dei marines caduti in battaglia.

Più interessante analizzarla, quella decisione. Che enfatizza la prima vittoria politica di Bush dopo quelle militari, senza nascondere l’intimo disagio della macchina militare Usa. Dover mostrare i cadaveri di Uday e Qusay Hussein vuol anche dire ricorrere a una guerra psicologica che, nei piani, a questo punto non dovrebbe più essere necessaria. Non a caso nelle ultime settimane George Bush non ha perso occasione per invitare altri Paesi a unirsi a Usa e Gran Bretagna nel difficile compito di pacificare l’Irak. L’Italia è una provincia dell’impero e certi fogli spiegano ogni giorno che a Baghdad tutto va bene. Ma i giornali americani, quelli che potrebbero decidere della rielezione di Bush, titolano: "Un Paese nel caos" (Newsweek), "L’ombra di Saddam" (Newsweek), "Bush sotto attacco per l’Irak" (Time), "La pace è un inferno" (Time). E calcolano il costo dell’occupazione: 1 miliardo di dollari a settimana.

I problemi, inevitabili, ci sono e sono grossi. È assai difficile credere che i figli di Saddam, e Saddam stesso, siano le menti della guerriglia che tormenta le truppe Usa e combatte con cinismo e astuzia la vera battaglia: quella che si svolge sui milioni di televisori che ogni sera, in America, annunciano che altri soldati sono stati uccisi. Uday e Qusay erano finiti a Mosul, città con forte presenza curda, dove moltissimi avrebbero voluto vederli morti. E infatti hanno subito trovato un traditore disposto a venderli. Difficile credere che, in quelle condizioni, potessero dirigere i fedayn.

IL MEMORANDUM DI "AMNESTY"
C’è inoltre chi punta il dito contro le forze armate che occupano l’Irak, accusandole di aver ripetutamente violato il diritto umanitario internazionale. Lo fa Amnesty International. Una sua delegazione di alto livello ha visitato nei giorni scorsi il Paese. Le preoccupazioni riguardanti il rispetto della legge e le modalità con cui viene tutelato l’ordine pubblico sono oggetto di un articolato Memorandum presentato da Amnesty il 23 luglio (il testo integrale sul sito www.amnesty.org).

«Da un lato», spiega Marco Bertotto, presidente della sezione italiana di Amnesty International, «manifestiamo apprezzamento per alcune misure assunte da Usa e Regno Unito, cui fa capo l’amministrazione provvisoria, come la sospensione della pena di morte o l’abolizione dei tribunali speciali rivoluzionari e di quelli per la sicurezza nazionale, noti per la clamorosa irregolarità dei loro processi. D’altro canto, però, non possiamo non evidenziare tante palesi violazioni del diritto umanitario internazionale commesse da soldati della coalizione, in particolare americani».

MOHAMMAD, VITTIMA INNOCENTE
«Anche in un conflitto ci sono regole che vanno rispettate», prosegue Bertotto. «La detenzione di prigioneri di guerra è regolata dalla terza Convenzione di Ginevra; quella dei prigionieri comuni, dalla quarta. Abbiamo prove di persone private del sonno, costrette a stare inginocchiate o incappucciate per ore e ore. A qualcuno è stato impedito di cambiarsi per due mesi. Molti prigionieri non sanno che cosa viene loro imputato né hanno la possibilità di essere assistiti da un avvocato difensore. Spesso, poi, c’è un uso della forza non proporzionato alle provocazioni e ai rischi reali», sottolinea Marco Bertotto. «Il 13 giugno, nel carcere di Abu Ghraib, a Baghdad, il ventiduenne Ala’ Jassem è stato ucciso in una rivolta sedata con le armi. Tanti soldati non hanno esperienza né sufficiente preparazione teorica».

L’episodio più triste denunciato dal Memorandum è avvenuto nella capitale irachena il 26 giugno. Un dodicenne, Mohammad al Kubaisi, è stato colpito dai soldati che perlustravano i dintorni di casa sua: il ragazzo portava in terrazza la biancheria. I vicini hanno tentato di trasportarlo al vicino ospedale ma sono stati bloccati da un mezzo militare Usa. I soldati li hanno costretti a sdraiarsi a terra e poi a tornare a casa, perché nel frattempo era scattato il coprifuoco. A quel punto Mohammad era già morto. Gli stessi americani hanno voluto investigare, come dà atto il Memorandum: il 9 luglio, militari Usa sono tornati in quella casa, hanno ascoltato i testimoni e ai familiari distrutti hanno comunicato che un loro commilitone era detenuto in relazione al fatto.

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