Da Corriere della Sera del 31/07/2003

Nuovo appello di Annan per l’intervento militare in Liberia. Ma per gli Usa è «troppo presto»

Cinquantamila disperati nello stadio di Monrovia

I profughi accampati all’aperto non ricevono cibo da giorni a causa dei combattimenti che paralizzano la città. Solo qualcuno ha un telo di plastica per ripararsi dalla pioggia torrenziale

di Massimo A. Alberizzi

MONROVIA - «A te sembra un cessate il fuoco questo?». Philip Snatter, riparatore di computer, osserva la battaglia dalla terrazza della sua casa a poche centinaia di metri dal «Ponte Vecchio», per la conquista del quale si sta combattendo da 11 giorni a Monrovia. I tiri di armi automatiche sono continui e poi ci sono i mortai e il rombo di una contraerea usata ad alzo zero. Il muro della palazzina di tre piani dove abita Philip è crivellato di proiettili e per osservare i combattimenti è bene stare accuratamente riparati dietro il muro-parapetto. L'ennesima tregua, dichiarata martedì, dunque è fallita.

Philip è barricato nel suo appartamento all'ultimo piano assieme al padre. Ha spedito in America moglie e figlia. «Siamo vicinissimi alla terra di nessuno e temo che, se i ribelli dovessero sfondare, i governativi in ritirata cercherebbero di saccheggiare tutto ciò che trovano». I primi due piani della palazzina sono occupati da una decina di famiglie di rifugiati. Vivono in condizioni disumane negli appartamenti e bivaccano sulle scale. Dove sono i proprietari? «Sono scappati abbandonando tutto. Sono allo stadio».

Lo stadio di Monrovia è una bolgia dantesca. Accampate su quello che doveva essere un prato verde, ci sono almeno 50 mila persone. La loro casa è una misera coperta. Qualcuno ha alzato 4 pali e steso un telo di plastica per ripararsi, almeno un po', dalla pioggia torrenziale che viene giù in questi giorni. Ma la maggior parte non gode di alcuna protezione. Da giorni e giorni questa gente non riceve alcun aiuto: «Le pallottole vaganti, i razzi e i colpi di mortaio ci impediscono di spostarci - racconta Benoit Leduc di Medici senza Frontiere -. Dopo la morte di due dei nostri, abbiamo sospeso la distribuzione di cibo e di acqua». Anche la mancanza di benzina sta mettendo in ginocchio la città. I rifornimenti sono bloccati: il porto di Monrovia è nelle mani dei ribelli del Lurd (Liberians United for Reconciliation and Democracy) e quello di Buchanan lunedì è stato catturato dagli insorti del Model (Movement for Democracy in Liberia).

Attorno al letto del paziente moribondo si sono riuniti tutti, americani, europei, Paesi africani. Persino due esperti italiani che dovevano verificare la situazione umanitaria sono piombati a Monrovia per 24 ore: «Qui non occorrono i cosiddetti esperti. Abbiamo bisogno di una forza di interposizione e di aiuti alimentari. Quando saranno pronti rapporti e dossier noi saremo tutti morti - commenta sconsolato il riparatore di computer mentre l'ennesimo proiettile si conficca contro il muro della sua casa -. L'unica cosa che funziona è il telefono. Basta chiamare e chiedere: di cosa avete bisogno?». Ieri sera per studiare ancora una volta la situazione è sbarcato all'aeroporto un gruppo di ricognizione dell'Ecomog (la forza militare dei Paesi della Comunità Economica dell'Africa Occidentale). Tutti sperano che finalmente l'operazione di pace parta anche perché il segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, da giorni implora la comunità internazionale: «Intervenite». Ieri ha spiegato: «Abbiamo una forza di caschi blu in Sierra Leone (la più grande al mondo in questo momento, 13.094 uomini, ndr. ); usiamola per trasportare un battaglione di nigeriani senza indugio in Liberia».

Ma da Washington la portavoce del Pentagono, Lawrence Di Rita, è stata più cauta sostenendo che «è troppo presto» per dire se e quando gli americani, le cui navi dovrebbero arrivare davanti alle coste liberiane oggi, scenderanno a terra per dar man forte al contingente dell'Ecomog.

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