Da Corriere della Sera del 28/07/2003

Castro: felice di essere isolato

L’ultima sfida di Fidel: «Rinunciamo volentieri agli aiuti dell’Europa»

di Rocco Cotroneo

SANTIAGO DE CUBA - La Revolución non si tocca. E poco importa se Cuba dovesse restare sola al mondo, lascia intendere il suo líder máximo . «Avevo 26 anni quando ho preso d'assalto questa caserma, oggi ne ho cinquanta in più sulle spalle. Tutti di lotta». Fidel Castro sceglie una data storica - mezzo secolo fa l'attacco alla Moncada segnava l'inizio della sfida alla dittatura di Batista - per sancire la rottura con l'Europa, cui rivolge parole durissime, le stesse che un tempo riservava solo al nemico storico nordamericano, e continuando a ignorare le proteste mondiali contro la stretta sui dissidenti. Nel 1959, tre anni dopo l'assalto fallito a Santiago, i barbudos entreranno trionfalmente all'Avana. Da allora Castro è al potere, è rimasto l'ultimo pezzo di storia del Novecento in attività, la rivoluzione ha passato momenti più o meno felici, ma il suo capo non dà segni di voler andare in pensione. Alle voci su un peggioramento del suo stato di salute, il presidente cubano risponde mostrandosi in buona forma. Limita però il discorso celebrativo ad un'ora e dieci minuti, nulla rispetto agli interminabili comizi di un tempo. Una leggera pioggia toglie l'incubo del caldo opprimente con il quale Santiago convive in questa stagione.

Più di mezz'ora Castro la dedica ad attaccare l'Unione Europea, che ha approvato nelle scorse settimane due risoluzioni di condanna («vergognose e infami»), dopo l'arresto dei 75 dissidenti e l'esecuzione di tre dirottatori di un traghetto. Dice sprezzante che gli aiuti umanitari cancellati erano una bazzecola, un nulla rispetto alle colpe imperialiste di cui si macchiano i Paesi ricchi, e che Cuba «per dignità» ne farà volentieri a meno. All'appello europeo sulla prosecuzione del dialogo politico con L'Avana, risponde no: «La sovranità e la dignità di un popolo non si discutono con nessuno, men che meno con un gruppo di antiche potenze coloniali responsabili storicamente di traffico di schiavi e sterminio di popoli». Castro stavolta risparmia l'Italia, ma definisce il premier spagnolo Aznar un «personaggio di stirpe fascista» e il suo Paese una «repubblica delle banane il cui sistema scolastico è una vergogna per l'Europa». Mentre i successi della rivoluzione cubana, dice, sono sotto gli occhi di tutti dopo 50 anni: le migliori scuole del mondo, l'aspettativa di vita oltre i 76 anni, la sanità gratuita. Per questo e altro, dice Castro, è sempre più attuale la frase storica che pronunciai al processo per sovversione nel 1953: «Condannatemi, non importa: la storia mi assolverà».

Gli sforzi del governo per usare l'isolamento come arma di consenso interno sono l'elemento fondamentale nella coreografia dei 50 anni della Moncada. L'isola è addobbata per la festa, Santiago è stata ridipinta a nuovo, la propaganda sui muri e in televisione è martellante. Mezzo secolo di rivoluzione sono anche mezzo secolo di resistenza all'assedio capitalista, è il messaggio.

Nella città sono arrivate non solo le più alte cariche dello Stato, ma i personaggi simbolo di questi ultimi anni, anni in cui la minaccia americana è stata evocata da Castro in maniera crescente. Se prima l'icona nella morsa imperialista era Elian Gonzalez, il bambino sopravvissuto al mare mentre era in viaggio verso la Florida, poi tenuto dalla lobby anticastrista per sette mesi, oggi a tener banco è il caso dei «cinque eroi prigionieri dell'impero», gli agenti segreti cubani arrestati e condannati a dure pene negli Usa, qualche mese fa. Alla festa della Moncada sono presenti i parenti dei cinque, i cui volti sono esposti ovunque sull'isola, oltre naturalmente Elian e il padre Juan Miguel, che andò a strapparlo ai parenti di Miami ed è oggi deputato.

Additati come esempio di eroismo, siedono nelle poltrone delle autorità persino i dodici infiltrati dai servizi segreti nelle fila della dissidenza, le cui testimonianze hanno portato alle durissime condanne dei 75 arrestati. La loro ricostruzione degli eventi è ampiamente pubblicizzata a Cuba, dove la retata che tanta ripulsa ha suscitato all'estero qui è stata presentata come una straordinaria vittoria sulla «controrivoluzione». I dodici doppiogiochisti girano l'isola da due mesi e hanno partecipato a decine di atti pubblici, i cubani li conoscono per nome, cognome e volto, come fossero una squadra di baseball.

La festa della Moncada è anche un'occasione, come ogni anno a luglio, per rilanciare il ruolo dei Cdr, Comitati di difesa della rivoluzione, la capillare struttura di controllo politico presente sull'isola. Le tradizionali feste di condominio del 26 luglio, alle quali sono invitati i giornalisti stranieri, sono un'occasione per bere, ballare la salsa, ricordare le gesta del passato e rilanciare lo spirito rivoluzionario. Mostrano senza dubbio la notevole capacità di consenso di cui il regime, e soprattutto Fidel Castro, ancora godono a Cuba nonostante le difficoltà della vita quotidiana. I simpatici vecchietti che generalmente guidano i Cdr fanno di tutto per smentire le accuse degli oppositori - secondo cui a Cuba il dissenso non è palpabile solo «perché c'è una spia in ogni palazzo» - e di solito ci riescono.

Al turista distratto o all'osservatore più attento Cuba non trasmette l'immagine di una pentola pronta ad esplodere. Oggi come dieci anni fa.

Quello che la Revolución in festa non riesce davvero a nascondere è che la stragrande maggioranza della popolazione si attende nel prossimo futuro una qualche forma di cambiamento e tira avanti grazie a questa prospettiva. A parte la «soluzione biologica», cioè l'inevitabile scomparsa del 76enne leader, ci si domanda se almeno in economia - visto che in politica non se ne parla - qualcosa riprenda a muoversi. Proprio dieci anni fa, il 26 luglio del 1993, Fidel Castro annunciava da Santiago i primi cambiamenti nel sistema monolitico dello Stato. Nacquero i ristoranti familiari, il lavoro in proprio, si spinse sulle joint-venture con le imprese straniere, si aprirono le porte a milioni di turisti. Venne autorizzato l'uso del dollaro come moneta alternativa al peso. In quei giorni Cuba, persi i sussidi dalla defunta Unione Sovietica, era a un passo dal collasso. La svolta risollevò parzialmente l'economia dal fondo del pozzo, ma oggi la spinta si è esaurita. Al regime castrista è mancato il coraggio - o la volontà politica - di andare avanti e in alcuni casi l'apertura al mercato ha fatto dietrofront. L'economia non va bene, e lo ammette lo stesso Castro, che dà la colpa agli uragani e alla congiuntura internazionale. Gli stipendi di Stato restano inchiodati al valore reale pari ad una manciata di dollari, in un Paese dove un pezzo di carne continua a costare l'equivalente di varie settimane di lavoro di un operaio o di un ingegnere. Con il risultato che buona parte del tempo dei cubani resta dedicato a procurarsi dollari, in maniera più o meno lecita, o ad aspettare le rimesse dei parenti all'estero, a meno di non rassegnarsi a mangiare solo riso e fagioli e usare lo stesso paio di scarpe per una vita. Come il regime pensi di migliorare il tenore di vita degli abitanti, se persino lo scarso interscambio commerciale rischia ora di deprimersi per cause diplomatiche, resta un mistero. Con Castro impegnato a tempo pieno a difendere il proprio posto nella storia, le prospettive di una transizione con il líder ancora in vita si assottigliano. In politica e in economia.

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