Da Financial Times del 09/03/2003

La felicità perduta

Siamo più ricchi, ma non più felici. I governi devono smettere di preoccuparsi solo dello sviluppo economico e della crescita del pil. Ci sono cose più importanti.

di Richard Tomkins

Da quando la specie umana ha cominciato a diffondersi sulla terra, il problema più urgente che ha dovuto affrontare è stato la lotta per la sopravvivenza. Il bisogno è la condizione normale degli esseri umani e la necessità di soddisfarlo è uno dei nostri istinti più radicati. Oggi però nel mondo sviluppato sta accadendo un fatto nuovo. Per la prima volta nella storia, i problemi che la società si trova ad affrontare non sono più solo quelli della scarsità ma, in misura crescente, quelli provocati dall'abbondanza.
Viviamo in un'economia in cui quasi tutte le industrie, vecchie e nuove, hanno un eccesso di capacità produttiva. Le automobili in circolazione sono così numerose che comincia a mancare lo spazio per guidarle; abbiamo così tanto cibo che dobbiamo affrontare un'epidemia di obesità; le cose da comprare, vedere e fare sono così tante che non troviamo più il tempo per godercele.
Troppo di tutto? È l'utopia a cui aspiravano i nostri antenati, convinti però che fosse impossibile realizzarla. Ma allora perché non siamo un po' più riconoscenti e più felici? La situazione in cui ci troviamo era stata prevista già nel lontano 1930 dall'economista inglese John Maynard Keynes. In un saggio intitolato “Le potenzialità economiche dei nostri nipoti”, Keynes affermava che nel corso della storia non c'erano mai stati grandi cambiamenti nel tenore di vita delle persone. C'erano stati alti e bassi, ma mai un progressivo miglioramento.
Con la rivoluzione industriale le cose sono cambiate completamente. Keynes notava che, a partire dal 1700, nonostante il forte incremento demografico, il tenore di vita negli Stati Uniti e in Europa era quadruplicato; e prevedeva che nell'arco di un secolo sarebbe aumentato di altre quattro o otto volte.
Perciò si poteva immaginare un mondo in cui il problema principale dell'uomo, la lotta per la sussistenza, sarebbe stato risolto. La questione più urgente, secondo Keynes, sarebbe stata allora riuscire ad approfittare della liberazione dalle necessità economiche per vivere serenamente e pacificamente. Su entrambi i fronti, sia quello dell'analisi economica sia quello delle sue implicazioni, Keynes aveva ragione. Il prodotto pro capite è cresciuto al ritmo che aveva previsto. E il passaggio da un'economia di sussistenza a una di abbondanza si sta dimostrando ancora più difficile di quello che ci si aspettava.
Il recente boom economico ha notevolmente migliorato il livello generale di benessere, ma è evidente che non c'è stato un aumento corrispondente del senso di soddisfazione delle persone. Le ricerche sulla felicità realizzate negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e nell'Europa continentale evidenziano che negli ultimi trent'anni il livello di felicità delle persone è rimasto lo stesso e in alcuni casi è diminuito.
In parte questo è dovuto al fatto che i benefici dell'aumento della ricchezza non sono stati distribuiti equamente. E non solo tra nord e sud del mondo. Anche nei paesi ricchi dell'occidente molte persone vivono sotto la soglia di povertà e molte altre hanno problemi a far quadrare i conti.

BISOGNO DI REALIZZARSI
Un'altra spiegazione del malessere diffuso nelle società ricche si trova nella "gerarchia dei bisogni" teorizzata dallo psicologo del comportamento Abraham Maslow nel 1943. Secondo Maslow, il bisogno di realizzarsi è al vertice della gerarchia delle necessità umane. Ma per arrivare al vertice, bisogna prima soddisfare in successione tutti gli altri livelli di bisogno, a partire dai bassi. Alla base della piramide di Maslow ci sono i bisogni primari come mangiare e bere. Poi viene il bisogno di sicurezza e di protezione. Poi l'amore e il senso di appartenenza, che comprende il desiderio di sentirsi accettati dalla famiglia, dalla comunità e dai colleghi sul lavoro.
Il quarto livello è il bisogno di stima, inteso sia come autostima sia come rispetto e ammirazione da parte degli altri. Infine, in cima alla piramide, c'è quella che Maslow definisce autorealizzazione: il punto in cui le persone raggiungono la felicità, quando diventano quello che sono in grado di diventare. A questo livello le persone possono dedicarsi alla conoscenza e a esperienze estetiche che le gratifichino, e aiutare gli altri a raggiungere l'autorealizzazione.
Ovviamente il denaro è molto importante per creare i presupposti della felicità. Senza denaro le persone non possono soddisfare i bisogni primari ed è im- probabile che possano raggiungere i piani alti della piramide di Maslow.
Il problema è che l'umanità, dopo aver trascorso quasi tutta la sua storia lottando per sopravvivere, si è convinta che aulamentare la propria ricchezza, anche oltre il limite in cui basta a garantire un buon tenore di vita, sia la chiave della felicità. Ma la piramide di Maslow suggerisce una prospettiva diversa e le ricerche sul- la felicità confortano la sua tesi. Dimostrano infatti che le persone con redditi molto bassi diventano molto più felici se aumentano i loro guadagni ma che, una volta raggiunto un livello di reddito accettabile, intorno ai diecimila dollari all'anno, la loro felicità non aumenta se il reddito cresce ancora.

Quel che vale per gli individui vale anche per le nazioni. Le persone nei paesi ricchi dichiarano livelli di felicità più alti di quelle nei paesi poveri. Ma quando un paese ha raggiunto un discreto sviluppo economico – per esempio la Gran Bretagna negli anni cinquanta, all'epoca del "non si è mai stati così bene" – il benessere ulteriore non cambiale cose. Anzi, la felicità può addirittura diminuire. La consapevolezza che il denaro non garantisce la felicità non è certo nuova. Come può confermarvi qualsiasi vecchio hippy era uno dei principi fondanti della rivoluzione culturale degli anni sessanta, e del resto non era una novità nemmeno allora. Ma dire che, passata una certa soglia, le società che si arricchiscono non diventano più felici è molto diverso. Per più di mezzo secolo i governi hanno impiegato il prodotto interno lordo (o il suo parente stretto, il prodotto nazionale lordo) come presunto indice del livello di benessere e di felicità. Ma se viene negato il nesso tra pil e felicità, uno degli obiettivi chiave di qualunque governo (mantenere il pil in continua ascesa) va rimesso in discussione. Il vero limite del pil come strumento per misurare la felicità di una
popolazione è che questo misura solamente le cose a cui può essere attribuito un valore monetario. Di conseguenza, tralascia proprio le cose che sono diventate più importanti per le persone dopo
che i loro bisogni fondamentali sono stati soddisfatti.
Per molte persone il tempo è diventato talmente prezioso da essere ribattezzato "il nuovo denaro" eppure il pil non ne tiene minimamentee conto.

RIDUZIONE DELL'AUTOSTIMA
La cosa peggiore è che spesso il pil considera positivi degli elementi che di fatto rendono la gente ancora più infelice. Prendiamo il secondo livello della piramide di Maslow: il bisogno di sicurezza e di protezione delle persone. Se si diffonde la criminalità, l'aumento delle spese per sistemi di sorveglianza, allarmi antifurto, armi e spray al peperoncino contribuisce alla crescita del pil. Eppure la felicità delle persone, che si sentono meno sicure, diminuisce.
Analogamente, il maggior numero di divorzi contribuisce alla crescita del pil, perché porta a un aumento delle spese legali e a domicili multipli, ma incide pesantemente su quello che Maslow chiama il bisogno di amore e di senso di appartenenza delle persone. Anche la diffusione della depressione nelle società occidentali ha ricadute positive sul pil, perché circolano quantità enormi di denaro per acquistare antidepressivi e per la psicoterapia, ma ovviamente riduce l'autostima delle persone.
Seguendo l'esempio di Keynes, possiamo estrapolare la crescita del pil e vedere a che punto saremo tra cent'anni. Un incremento annuo del 2 per cento aumenterebbe di sette volte la prosperità da qui al 2103, mentre un incremento annuo del 3 per cento porterebbe a un risultato incredibile: nel 2103 saremmo 19 volte più ricchi rispetto a oggi.
Ma che ce ne faremo di questa immensa ricchezza? Disporremo tutti di un numero 19 volte superiore di automobili e di case, e avremo le nostre piccole flotte private di aerei e di yacht? E dove li metteremo? E come troveremo il tempo di usarli? Le nostre vacanze si moltiplicheranno per diciannove? E come faremo a trovare un angolo di mondo che non sia stato ancora invaso da altri turisti?
Ma la domanda più importante è un'altra: saremo più felici? Essere esposti a una quantità di spot pubblicitari diciannove volte più alta e comprare quantità diciannove volte più grandi di beni di consumo ci aiuterà a salire ai livelli superiori della piramide di Maslow o finirà semplicemente per renderci diciannove volte più vittime della mancanza di tempo, depressi, divorziati e infelici?
Invece di aspettare cent'anni per scoprirlo, si potrebbe anche decidere di ridefinire il concetto di progresso, evitando di usare il pii come presunto indice del livello di soddisfazione. Potremmo indicare ai governi nuovi obiettivi che servano a raggiungere livelli più alti di felicità, anziché livelli più alti di benessere. Anche se l'idea può sembrare assurda, sono già stati compiuti diversi tentativi di elaborare un sistema alternativo per misurare il progresso. In generale, si usa il pil come elemento centrale e poi si corregge, eliminando gli aspetti dello sviluppo economico tradizionale che riducono il nostro livello di felicità.
Uno di questi tentativi ha prodotto l'indice del benessere economico sostenibile, elaborato dall'ex economista della Banca mondiale Herman Daly e dal teologo John Cobb nel 1989. L'indice parte dalla spesa personale del consumatore. A questa vengono sommate le cifre relative al lavoro domestico non retribuito e detratte molte voci che pure contribuiscono al pil, come il denaro speso per combattere la criminalità, gli incidenti e l'inquinamento. Inoltre, l'indice prevede ulteriori detrazioni per la disparità dei redditi, che può creare molta più invidia e frustrazione in coloro che occupano i gradini più bassi rispetto alla felicità che dà ai pochi che occupano il vertice. Infine, tiene in grande considerazione i costi del degrado ambientale e dell'esaurimento delle risorse naturali.
Un altro indice, il cosiddetto indicatore di autentico progresso, elaborato dall'organizzazione non-profit Redefining Progress, adotta un'impostazione simile ma tiene conto anche del valore del lavoro volontario nella comunità e detrae una quota significativa per la mancanza di tempo libero di cui è vittima chi passa troppo tempo al lavoro. Entrambi gli indici sono stati analizzati nel lungo periodo ed evidenziano una correlazione più stretta con i risultati delle ricerche sulla felicità che non con l'andamento del pil. Negli Stati Uniti l'indicatore di autentico progresso aumenta parallelamente al pil dai primi anni cinquanta fino al 1970 circa. Ma a questo punto si sgancia dal pil e subisce una flessione, proprio nel momento in cui, secondo le icerche sulla felicità, gli statunitensi cominciano a diventare meno felici. In Gran Bretagna l'indice di benessere economico sostenibile ha un andamento analogo.

LE PRIORITÀ DEI GOVERNI
Indubbiamente questi indici sono imperfetti. Attribuiscono un valore numerico a cose che per natura non si possono misurare. E quando si comincia a compilare un elenco delle cose che rendono le persone felici o infelici, è difficile trovare il punto in cui fermarsi. Eppure chi sostiene l'utilità di questi indici afferma che, anche se sono imperfetti, riescono a misurare il progresso in maniera molto più completa del pil. Perciò il pil non dovrebbe essere usato per misurare il grado di soddisfazione di una popolazione.
L'adozione di un nuovo indice di misurazione del progresso potrebbe determinare grandi cambiamenti nelle priorità dei governi. La spinta incessante a una maggiore produttività, per esempio, potrebbe essere sostituita da una riduzione delle ore lavorative, per permettere alle persone di trascorrere più tempo con la famiglia e la comunità. La riduzione delle diseguaglianze retributive implicherebbe l'introduzione di limiti all'avidità delle multinazionali e tasse più alte per i ricchi. Aumentare le tasse sull'uso delle risorse non rinnovabili contribuirebbe a finanziare soluzioni per il degrado ambientale e sociale.
Sono misure che incontrerebbero sicuramente forti resistenze. Probabilmente sarebbero più disposti ad accoglierle i partiti di centrosinistra, tradizionalmente più attenti al sociale, ma non i sostenitori del capitalismo liberista. Eppure, come aveva previsto Keynes, i paesi ricchi dell'occidente hanno raggiunto un punto di svolta e ci stiamo avvicinando rapidamente a un'era postmaterialista. Già adesso la felicità sta riguadagnando posizioni nella scala delle priorità politiche e culturali.
La psicologia edonista, ovvero lo studio della felicità, è ormai un'industria sulla cresta dell'onda. Uno dei suoi personaggi chiave è Daniel Kahnemann, che lo scorso anno ha ricevuto ex aequo il premio Nobel per l'economia. E di recente il professor Richard Layard ha tenuto tre conferenze sulla felicità alla London School of Economics, e ha definito il pil "una pessima misura del benessere”.
È anche significativo che a gennaio l'unità strategica dell'ufficio di gabinetto del governo inglese abbia pubblicato un documento preliminare, intitolato Soddisfazione di vita: conoscenze attuali e implicazioni per il governo. Lo studio conclude che "il governo deve intervenire per promuovere la felicità e la soddisfazione della popolazione".
Su ognuna delle 64 pagine del documento si precisa che è solo uno studio preliminare e non un impegno del governo, ma è sempre più chiaro che è solo una questione di tempo. Molto presto la gente considererà la felicità il nuovo denaro e la Gran Bretagna avrà il suo ministero del divertimento.

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