Da Famiglia cristiana del 06/07/2003

Rapporto sulla libertà religiosa nel paese di Castro

La Chiesa non è libera

La Caritas aiuta i poveri, ma non è riconosciuta. Tutta la comunità cattolica ha problemi con il regime: la speranza nata dalla visita del Papa nel '98 è diventata desesperanza.

di Renzo Giacomelli

L'Avana – La Caritas dell'Avana ha gli uffici (alcune spoglie stanzette) nello storico convento dell'Immacolata, poco distante dal luminoso lungomare. Ogni giorno bussano alla porta dalle 50
alle 60 persone. Chiedono cibo, vestiti, medicine. «Non sempre», dice Lionel Perez, il direttore, possiamo soddisfare le richieste, perché stiamo ricevendo meno aiuti dagli Stati Uniti e dall'Europa, e perché il nostro compito non è la distribuzione diretta dei soccorsi ma il coordinamento dell'assistenza caritativa nelle parrocchie, dove lavorano almeno duemila volontari».
Lionel, 65 anni, ingegnere chimico in pensione e diacono permanente dal 1991, aggiunge: «La domanda d'aiuto è cresciuta negli ultimi anni, parallela mente all'aumento della povertà. Noi tentiamo di dare risposte operando su due piani. Il primo ci vede intermediari tra i donatori e il Governo. Gli alimenti, le medicine, il materiale scolastico che riceviamo dall'estero dobbiamo consegnarli alle autorità, che provvedono a smistarli: noi però facciamo un controllo documentato della ripartizione. Il secondo piano passa per le parrocchie: rifornimento dei comedores (mense popolari), assistenza a domicilio a circa ottomila anziani soli, appoggio alle famiglie con bambini down».
A Cuba la Caritas non ha riconoscimento giuridico. «Il che comporta qualche difficoltà», spiega Lionel. «Ad esempio, non possiamo importare medicine, e non sempre otteniamo il permesso di acquistare, pagando in dollari, materiale edilizio per aiutare le famiglie più bisognose a riparare la loro casa. Qualche difficoltà ci viene anche da funzionari d'un certo livello, forse preoccupati che, attraverso la Caritas, la Chiesa diventi troppo visibile nella società cubana. Sono ostacoli che non ci distolgano dal dovere d'essere dei "buoni samaritani" per il nostro prossimo».

LA "SCUOLA DELLA PACE"
"Buoni samaritani" si sforzano d'essere anche i giovani della Comunità di Sant'Egidio, impiantata qui 11 anni fa. Sono 250 volontari in tutta Cuba, 50 all'Avana. Nel popolarissimo quartiere di Regla hanno una "Scuola della pace'" dove, una volta alla settimana, raccolgono una cinquantina di ragazzi con situazioni familiari difficili. Li aiutano a fare i compiti e li intrattengono con attività imperniate sui valori della pace. Prestano anche assistenza spirituale e morale agli anziani d'una casa di riposo.
Impegno da "buone samaritane" anche quello del Movimento delle donne cattoliche, attivo in 25 parrocchie dell'Avana. Dice la presidente, Sara Vasquez: «Oltre a convegni diocesani mensili, in cui dibattiamo temi legati al ruolo dei laici nella Chiesa e nella società, promuoviamo talleres (laboratori) per donne che vivono situazioni difficili: ragazze-madri, mogli maltrattate o abbandonate. Fanno lavori di cucito e ricamo, preparano dolci. Dalla vendita di questi prodotti ricavano poco, ma è importante sia per alimentare gli esigui bilanci domestici, sia per far aumentare l'autostima in persone spesso disprezzate».
Sara Vasquez, biologa, e il marito Rodolfo Romero, medico, sono da sempre impegnati nella Chiesa. «Un tempo», afferma Sara, «se andavi in chiesa, ti prendevano in giro. Oggi ti rispettano. Anzi, ora frequentano le chiese anche militanti del Partito comunista. Però rimane vero che l'essere cristiani dichiarati ostacola la carriera e che il regime considera la religione un affare privato, senza alcuna incidenza sociale».
«É così. A Cuba la Chiesa ha spazi molto limitati, tanto che si può dire che abbiamo libertà di culto ma non libertà religiosa», afferma il cardinale Jaime Ortega, arcivescovo dell'Avana e presidente della Conferenza episcopale cubana.

Eminenza, che cosa intende esattamente per libertà religiosa?
«La possibilità di diffondere la visione cristiana sui grandi problemi etici e sociali, e quindi di avere accesso ai media, che qui sono tutti dello Stato; la possibilità di aprire scuole cattoliche o di essere presenti nella rete scolastica pubblica; la possibilità di collaborare alla soluzione degli acuti problemi sociali dei più svantaggiati: bambini con famiglie lacerate, anziani soli, malati cronici».

La Caritas non interviene già, almeno in quest'ultimo campo?
«Lo fa con parecchie limitazioni, perché a Cuba la Caritas non ha riconoscimento giuridico. Il che comporta che le attività svolte senza l'accordo con gli organismi statali possano produrre conflitti e situazioni difficili».

Sono passati ormai più di cinque anni dalla visita di Giovanni Paolo II a Cuba. Da allora è cambiato qualcosa nella vostra società?
«La preparazione della visita e il suo svolgimento avevano suscitato grandi speranze in tutta la società. Si sperava davvero che, seguendo l'appello del Papa, Cuba si aprisse al mondo e il mondo a Cuba. Non è stato così, e ora anziché speranza c'è desesperanza».

Perché? Che cosa è successo?
«È successo che nell'estate del 1998, quindi alcuni mesi dopo la visita del Pontefice, è incominciata una campagna ideologica forte, con gli schemi di propaganda e mobilitazione tipici degli anni Sessanta, all'inizio della rivoluzione. Io ho parlato con Fidel Castro nel 2001 e lui mi disse che la 'Battaglia di idee" non era diretta contro la Chiesa ma aveva per obiettivo di conquistare giovani alla rivoluzione».

E non è così?
«È vero che questa campagna non presenta gli elementi filosofici ispirati al vecchio ateismo scientifico. È anche vero che non si attacca più la Chiesa. Ma è innegabile che si continua a considerare la religione qualcosa di totalmente estraneo alla società».

Eppure, la televisione e la stampa danno grande spazio ai culti sincretistici, alla santerìa, che sono espressioni religiose...
«Come no. Si vorrebbe presentare la santerìa come la vera religione cubana. Non è così. La religiosità cubana predominante è cattolica e si esprime, oltre che con la crescente pratica dei nostri fedeli, con una diffusa religiosità popolare cristiana, che non ha niente da spartire con lo spiritismo o la santería».

Quali effetti ha avuto la visita del Papa nella vita ordinaria della vostra Chiesa di Cuba?
«L un fatto che molti cubani si sono riavvicinati alla Chiesa. Il fenomeno più interessante è il moltiplicarsi di piccole comunità attorno alle "case di preghiera". Poiché a Cuba le chiese scarseggiano, spesso i cristiani si riuniscono a pregare e ad approfondire la loro fede nelle case di qualche vicino. Gli incontri sono guidati da religiose o da laici ben preparati. In queste "case di preghiera" si preparano anche i bambini ai sacramenti dell'iniziazione cristiana e si organizza il catecumeno per gli adulti. Solo all'Avana abbiamo 250 piccole comunità, alcune delle quali sono diventate parrocchie».

Parrocchie senza prete?
«Senza prete fisso. La scarsità di clero non colpisce solo la diocesi dell'Avana. In tutto il Paese i sacerdoti sono 320. C'è una lista di preti stranieri in attesa di poter lavorare a Cuba. Ma i permessi vengono dati con il contagocce. Non è l'unico ostacolo alla nostra azione pastorale. Abbiamo restrizioni per l'acquisto di computer, di materiali per la riparazione delle chiese, di mezzi di trasporto. La nostra Conferenza episcopale è forse l'unica al mondo che non ha l'accesso a Internet».

La scarsità di clero vi obbliga a ricorrere ai laici?
«Abbiamo un discreto numero di laici ben preparati, veri missionari in parrocchia e nel loro ambiente di lavoro. Da noi opera molto bene il Movimento familiare cristiano, con alcuni centri di aiuto alle coppie in difficoltà».

E in campo politico, che è proprio del laicato, che fanno i cattolici?
«Hanno due possibilità. La prima, assai difficile, è di fare politica nel Partito comunista: ce ne sono alcuni, anche con responsabilità di rilievo. L'altra, ancor più difficile, è di partecipare alla dissidenza. Sarebbe bene che a Cuba ci fossero più partiti, riconosciuti dal sistema, per progettare il futuro del Paese senza il rischio di finire in carcere».

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