Da La Stampa del 22/07/2003
Infuria la battaglia nelle strade della capitale fra i fedelissimi di Taylor e i ribelli mentre si esita sull’intervento
La Liberia nel caos, è guerra civile
Arrivano i primi rinforzi dagli Usa: quaranta teste di cuoio
di Domenico Quirico
Una quarantina di teste di cuoio dei corpi speciali della Marina: è quanto gli Stati Uniti hanno concesso alle speranze della popolazione della Liberia che invoca l’aiuto dei «fratelli americani». Infuria la battaglia per le strade di Monrovia tra gli sgherri del presidente Charles Taylor, losco autocrate senza scrupoli, e i ribelli che lo vogliono cacciare. Per fugare i dubbi americani, che temono di impaludarsi in un macello che assomiglia pericolosamente alla Somalia, non è bastato neppure un bombardamento a colpi di mortaio dell’ambasciata dove hanno trovato rifugio i cittadini americani e i giornalisti. La città, che con i massacri ha una certa dimestichezza, assomiglia a un mostruoso groviglio di scontri, saccheggi, atrocità. Le vittime sono già centinaia e gli ospedali hanno alzato bandiera bianca. Per le strade i soldati bambini che rimpolpano le due armate si affrontano a colpi di kalashnikov e di machete. E i morti abbandonati segnano la geografia degli scontri e delle ritirate.
Migliaia di civili, impazziti per il terrore e le vendette, cercano la salvezza nella fuga. Grappoli di gente si sono ammassati davanti all’ambasciata americana invocando salvezza, ma il portone e i reticolati sono rimasti atrocemente chiusi. Il complesso, che è un bunker solidissimo, si trova ormai sulla prima linea nel quartiere-chiave di Mamba Point dove ci sono i ponti che collegano i quartieri residenziali al resto della città. I ribelli, che innalzano le bandiere del Lurd (liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia), hanno conquistato il porto e avanzano verso il palazzo del presidente per una resa dei conti che si annuncia sanguinosa e senza misericordia.
Al largo sulle navi sono comunque pronti altri duemila marine: le teste di cuoio sono un’avanguardia che deve preparare lo sbarco dei compagni se la situazione precipiterà verso un massacro. Alle richieste di intervento umanitario Bush ha sempre opposto un principio cardine della sua presidenza: la Liberia non rientra tra gli interessi vitali degli Stati Uniti e quindi non c’è la necessità di rischiare la vita dei soldati americani. Ma a Washington, anche nel partito repubblicano, si sono alzate molte proteste contro questa rigida realpolitik: perché l’America ha un debito morale nei confronti di questo Paese che fu fondato proprio per risarcire, in parte, le colpe accumulate con lo schiavismo. Fu un gruppo di filantropi abolizionisti, infatti, nell’Ottocento a lanciare il progetto di comprare una patria in Africa da regalare agli schiavi riscattati negli stati del Sud. Questa nuova patria fu chiamata ottimisticamente Liberia e la capitale intitolata al presidente Monroe. Il progetto era ambizioso e generoso, i risultati furono tragici. Perché gli schiavi liberati scoprirono di avere pochi interessi comuni con i loro fratelli e interpretarono la negritudine come una invitante possibilità di applicare nello sfruttamento degli indigeni i metodi, che ben conoscevano, degli schiavisti. Fu un tragico, paradossale apartheid che alimenta la tragedia liberina ancora oggi.
Un altro guaio per gli Stati Uniti è costituito dell’identikit dei protagonisti della mischia fratricida. Il presidente Taylor ha studiato in America (discende da quella feroce aristocrazia nera) ed è uno dei più astuti protagonisti della «privatizzazione» del martirio africano. Dopo aver ghermito il potere con la forza e l’aiuto di imbarazzanti alleati come Gheddafi, ha trasformato il Paese in un’azienda di famiglia amministrata con la violenza. Non soddisfatto di quanto spremeva ai suoi cittadini, mezzo boss mafioso e mezzo presidente, ha investito uomini e mezzi nel bestiale massacro della vicina Sierra Leone per spartirsi le miniere di diamanti. E’ stato un errore fatale e ora è braccato da un mandato di cattura per genocidio da parte del tribunale internazionale che si occupa di saldare i conti di quell’abominio. Il tiranno sembrava ormai con le spalle al muro, e aveva già trattato una pensione dorata in Nigeria. Poi ha cambiato idea, perché teme gli artigli sovranazionali del nuovo diritto internazionale umanitario e ha annunciato che si batterà fino all’ultimo uomo.
I suoi avversari, purtroppo, non sono migliori di lui. Il Lurd, ben camuffato dietro una sigla promettente, è una coalizione eterogenea di signori della guerra, legati alla complessa geografia tribale, con loschi legami con Paesi vicini e gruppi finanziari che spartirsi le ricchezze del Paese. Ognuno dei «liberatori» ciancia di democrazia ma non vede l’ora, eliminato l’ingombrate e avido Taylor, di gettarsi all’assalto del bottino. Gli americani sono alla ricerca di un candidato credibile per un futuro governo; forse l’hanno trovato in Winston Tubman, un distinto funzionario delle Nazioni Unite, sessantadue anni, nipote di un presidente e disperso galantuomo in questa accozzaglia banditesca. Soprattutto contavano sull’intervento di una forza di interposizione africana. La neonata Unione che vuole copiare l’Europa e ha grandi ambizioni aveva promesso soldati e impegno umanitario. Poi tutto si è arenato nelle spirali della burocrazia continentale e nelle beghe tra despoti gelosissimi. I liberiani sono davvero soli.
Migliaia di civili, impazziti per il terrore e le vendette, cercano la salvezza nella fuga. Grappoli di gente si sono ammassati davanti all’ambasciata americana invocando salvezza, ma il portone e i reticolati sono rimasti atrocemente chiusi. Il complesso, che è un bunker solidissimo, si trova ormai sulla prima linea nel quartiere-chiave di Mamba Point dove ci sono i ponti che collegano i quartieri residenziali al resto della città. I ribelli, che innalzano le bandiere del Lurd (liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia), hanno conquistato il porto e avanzano verso il palazzo del presidente per una resa dei conti che si annuncia sanguinosa e senza misericordia.
Al largo sulle navi sono comunque pronti altri duemila marine: le teste di cuoio sono un’avanguardia che deve preparare lo sbarco dei compagni se la situazione precipiterà verso un massacro. Alle richieste di intervento umanitario Bush ha sempre opposto un principio cardine della sua presidenza: la Liberia non rientra tra gli interessi vitali degli Stati Uniti e quindi non c’è la necessità di rischiare la vita dei soldati americani. Ma a Washington, anche nel partito repubblicano, si sono alzate molte proteste contro questa rigida realpolitik: perché l’America ha un debito morale nei confronti di questo Paese che fu fondato proprio per risarcire, in parte, le colpe accumulate con lo schiavismo. Fu un gruppo di filantropi abolizionisti, infatti, nell’Ottocento a lanciare il progetto di comprare una patria in Africa da regalare agli schiavi riscattati negli stati del Sud. Questa nuova patria fu chiamata ottimisticamente Liberia e la capitale intitolata al presidente Monroe. Il progetto era ambizioso e generoso, i risultati furono tragici. Perché gli schiavi liberati scoprirono di avere pochi interessi comuni con i loro fratelli e interpretarono la negritudine come una invitante possibilità di applicare nello sfruttamento degli indigeni i metodi, che ben conoscevano, degli schiavisti. Fu un tragico, paradossale apartheid che alimenta la tragedia liberina ancora oggi.
Un altro guaio per gli Stati Uniti è costituito dell’identikit dei protagonisti della mischia fratricida. Il presidente Taylor ha studiato in America (discende da quella feroce aristocrazia nera) ed è uno dei più astuti protagonisti della «privatizzazione» del martirio africano. Dopo aver ghermito il potere con la forza e l’aiuto di imbarazzanti alleati come Gheddafi, ha trasformato il Paese in un’azienda di famiglia amministrata con la violenza. Non soddisfatto di quanto spremeva ai suoi cittadini, mezzo boss mafioso e mezzo presidente, ha investito uomini e mezzi nel bestiale massacro della vicina Sierra Leone per spartirsi le miniere di diamanti. E’ stato un errore fatale e ora è braccato da un mandato di cattura per genocidio da parte del tribunale internazionale che si occupa di saldare i conti di quell’abominio. Il tiranno sembrava ormai con le spalle al muro, e aveva già trattato una pensione dorata in Nigeria. Poi ha cambiato idea, perché teme gli artigli sovranazionali del nuovo diritto internazionale umanitario e ha annunciato che si batterà fino all’ultimo uomo.
I suoi avversari, purtroppo, non sono migliori di lui. Il Lurd, ben camuffato dietro una sigla promettente, è una coalizione eterogenea di signori della guerra, legati alla complessa geografia tribale, con loschi legami con Paesi vicini e gruppi finanziari che spartirsi le ricchezze del Paese. Ognuno dei «liberatori» ciancia di democrazia ma non vede l’ora, eliminato l’ingombrate e avido Taylor, di gettarsi all’assalto del bottino. Gli americani sono alla ricerca di un candidato credibile per un futuro governo; forse l’hanno trovato in Winston Tubman, un distinto funzionario delle Nazioni Unite, sessantadue anni, nipote di un presidente e disperso galantuomo in questa accozzaglia banditesca. Soprattutto contavano sull’intervento di una forza di interposizione africana. La neonata Unione che vuole copiare l’Europa e ha grandi ambizioni aveva promesso soldati e impegno umanitario. Poi tutto si è arenato nelle spirali della burocrazia continentale e nelle beghe tra despoti gelosissimi. I liberiani sono davvero soli.
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