Da Corriere della Sera del 17/07/2003

L'Iran ammette: Zahara è stata uccisa. E la reporter ora è simbolo della rivolta

Regista e poi fotografa, aveva lasciato il Paese nel ’79, mantenendo però forti contatti in patria

di Paolo Conti

L'opposizione iraniana ha il suo nuovo, tragico vessillo da issare durante i cortei contro il regime degli ayatollah: il bel volto da iraniana di Zahara Kazemi, lineamenti decisi, sguardo fiero, carnagione olivastra. Una fotografa, una donna di cultura internazionale, una figlia dell’Iran che dal 1993 aveva anche il passaporto canadese: quanto di più lontano dallo schema femminile caro agli eredi di Khomeini. Zahara è un simbolo ideale anche per il palcoscenico internazionale: per la prima volta nella storia dell'Iran khomeinista una fonte ufficiale governativa riconosce la paternità della morte di un giornalista arrestato e pestato da uomini armati ancora privi di un'identità (polizia religiosa o bande irregolari?). E' stato quel suo doppio passaporto a costringere Teheran ad ammettere tutto: l'incidente diplomatico col Canada, Paese col quale i rapporti sono ottimi, è un affare troppo serio per essere liquidato con la solita mezza bugia.

Ieri il vice presidente iraniano Mohammad Ali Abtahi, uno dei più stretti collaboratori del presidente Khatami, lo ha ammesso senza giri di parole: «Stando alla relazione del ministero della Sanità, Zagara Kazemi è morta per emorragia cerebrale in seguito alle percosse ricevute dopo l'arresto. La morte di Zahara consegna al mondo un'immagine molto negativa dell'Iran». Ma a Teheran la confusione deve essere alle stelle se sempre ieri, durante un colloquio telefonico col suo collega canadese Bill Graham, il ministro degli Esteri iraniano Kamal Kharrazi ha detto che è «troppo presto» per stabilire le cause della morte di Zahara Kazemi e che potrebbe trattarsi anche di un incidente. Lo stesso ministro della Sanità, Massoud Pezeshkian, ha preso le distanze: «Ho esaminato il corpo e non ho visto ferite».

Nemmeno all'interno del governo progressista di Khatami, assediato dal vero potere conservatore di Alì Khamenei, tutti sono d'accordo con quella scelta senza precedenti: dire chiaramente come sono andate le cose.

Zahara aveva 54 anni ed era iraniana di nascita. Come molte donne colte costrette a vivere sotto il regime confessionale dopo la rivoluzione del 1979, aveva scelto la via dell'emigrazione. Prima la Francia. Poi dal 1993 il Canada, uno dei Paesi che considerano il multiculturalismo e la libertà di espressione una ricchezza: altro che l'Iran degli ayatollah, la severa separatezza tra uomini e donne, le rigide regole dell'unica religione possibile. Anche in questo era una tipica iraniana dei nostri tempi: sono tante le emigrate di successo.

Era arrivata tardi alla fotografia, verso i quarant'anni. Alle spalle aveva un passato da regista: dodici film realizzati per la società di produzione ufficiale iraniana. Perché Zahara, Ziba per gli amici, non si considerava un'esiliata: era una delle tante intellettuali che analizzano con chiarezza questa dura stagione iraniana, ma mantengono legami, affetti, interessi con la terra d'origine. Amava le amare storie della gente comune d'oggi: la disperazione dei bambini, la morte all'angolo della strada, i giovani torturati per le proprie idee. Quindi Libia, Palestina e Israele, Afghanistan, ultimamente l'Iraq. Come molti suoi colleghi preferiva il rigore del bianco e nero alla scorciatoia del colore. Era molto nota e apprezzata nella comunità dei corrispondenti stranieri a Teheran e dai giornalisti iraniani.

Aveva un bel carattere ironico. Poco prima della morte aveva inviato in Canada al figlio Stephan Hachemi una e-mail: «Questo Paese sta sperimentando le sommosse notturne... non credi sia l'ideale per scattare buone fotografie?». Era di passaggio in Iran, dopo un lungo lavoro in Iraq. Dopo l'attendevano il Turkmenistan e forse la Corea del Nord. Dall'inizio di giugno era a Teheran. Sapeva bene cosa stesse accadendo nelle università. Il 23 giugno aveva decido di usare la sua macchina fotografica al carcere di Evin, a Teheran, dove finiscono i detenuti politici, giovani universitari compresi.

Dicono fosse all'esterno dell'edificio, altri giurano che fosse riuscita a entrare nella sala d'attesa e a fotografare alcuni familiari dei ragazzi delle università finiti lì dentro. Una sola cosa è sicura: quella mattina Zahara è stata arrestata per spionaggio e portata via. Dove e da chi? Per dodici giorni, ha protestato il suo anziano padre, è stato impossibile saperlo. Chi ha bloccato Ziba l'ha considerata una qualsiasi iraniana: le prigioni khomeiniste, secondo un dossier di Reporter senza frontiere , sono piene di giornalisti in attesa di giudizio da parte dei tribunali islamici. Solo 25 sono «ospitati» proprio a Evin. Ma Zahara non era «solo» iraniana: un pestaggio più sbagliato di tanti altri anche se per l'Iran un iraniano resta «solo» iraniano anche con una seconda nazionalità.

Finalmente suo padre l'aveva trovata nel reparto di rianimazione dell'ospedale Baqiyatollah Azam che appartiene ai pasdaran, i «guardiani della rivoluzione». Chi l'ha vista l'ha trovata senza conoscenza, fasciata, piena di ferite e di tagli alla testa e al volto. Zahara è morta il 12 luglio. Suo figlio Stephen, da Montreal, ha avuto la forza di trasformare la vicenda di sua madre in un caso internazionale: conferenze stampa, richieste alle autorità di Ottawa, polemiche con gli emissari di Teheran e le loro versioni ufficiali. Il coraggioso Stephen racconta come sua nonna sia stata quasi costretta a chiedere un'immediata sepoltura per sua figlia, metodo ideale per cancellare ogni prova. Ma dopo il gran clamore internazionale qualcuno deve aver rivisto in fretta i propri piani: adesso quel corpo è conservato, così sembra, all'istituto di medicina legale. Nel frattempo tutti chiedono inchieste: il Canada, Amnesty International, Reporter senza frontiere.

Ora quel corpo martoriato è a sua volta un simbolo. Se il Canada lo otterrà indietro e potrà procedere a una vera autopsia, vorrà dire che Khatami ha vinto una prima battaglia dopo aver ordinato la sua inchiesta. Se resterà a Teheran e verrà sepolto in Iran, significherà che Khamenei, nemico degli studenti e delle loro richieste (nonché di Khatami), controlla ancora l'Iran. Tutto l'Iran.

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