Da Corriere della Sera del 17/06/2003

Iran, un manifesto contro la teocrazia

Gli intellettuali: «Il potere assoluto è contro Dio». Il regime denuncia gli Usa: fomentano la protesta

di Paolo Conti

Da sette giorni gli studenti iraniani sono in piazza. E la saldatura della protesta al malcontento degli intellettuali si materializza nella lettera aperta firmata nelle ore della rivolta da 248 politici, religiosi, giornalisti, docenti (inclusi noti mullah come Seyed Hossein Musavi Tabrizi, un tempo vicino a Khomeini e procuratore generale nei primi anni della rivoluzione). Il testo definisce «eresia nei confronti di Dio e oppressione della dignità umana» l’esercizio «di un potere divino, assoluto» da parte del regime. Parole forti: «Il popolo ha il diritto di supervisionare l’operato dei suoi dirigenti, di consigliarli, criticarli, costringerli alle dimissioni o silurarli se non è contento di loro. Considerare degli individui in una posizione divina e di assoluto potere è un atto di politeismo, in contraddizione con la volontà dell’Onnipotente e in evidente oppressione della dignità dell’uomo».
Alla radice di tanta chiarezza programmatica c’è un intellettuale perseguitato e immensamente popolare in Iran: Hashem Aghajari, storico all’università di Hamedan, esponente riformista di spicco, invalido della guerra Iran-Iraq (ha perso una gamba), studioso dell’Islam ed erede spirituale di Alì Shariati (quasi una leggenda in Iran, fu un ideologo della Rivoluzione islamica anche se non la vide mai perché morì in circostanze misteriose in Gran Bretagna nel 1977). Aghajari è stato condannato a morte per blasfemia il 6 novembre per un suo discorso anti-regime ad Hamedan nell’agosto 2002. La pena è solo sospesa e per ora lo storico deve scontare quattro anni. A novembre la sentenza capitale provocò un’ondata di proteste in tutte le università, soprattutto a Teheran: era stato condannato a morte un professore soltanto per il suo dissenso culturale e soprattutto teologico.
Cosa dice, quel lontano giorno di un anno fa, di tanto grave e importante Aghajari e perché gli studenti iraniani ora guardano a lui? In quell’allocuzione ai giovani lo studioso mina le fondamenta del potere confessionale: «Finché non cambia questo modo di pensare e finché non cambiano questi leader il popolo che segue la loro interpretazione continuerà a pensare che l’Islam sciita non può essere una religione moderna perché viene strumentalizzato da sconsiderati. Invece di servire come forza guida verso il progresso e lo sviluppo diventerà causa di una arretratezza permanente». Il professore mette sotto accusa la gerarchia sciita: «Nell’Islam non abbiamo mai avuto un clero. Alcuni titoli sono stati creati cinquant’anni fa... sono come nella Chiesa cattolica i cardinali, i vescovi, i sacerdoti. C’è il Grande Ayatollah, l’Ayatollah, l’Hojatoleslam... Negli ultimi anni le istituzioni religiose sono diventate una specie di istituzioni del governo. La faccenda è diventata dunque molto complicata».
Aghajari illustra la grande differenza tra l’Islam «originale» e l’Islam «tradizionale», legato a una lettura figlia delle esperienze compiute dalle passate generazioni, proprio uno dei punti di forza del potere politico-confessionale degli Ayatollah: «La relazione che i religiosi fondamentalisti cercano di realizzare è quella tra un padrone e i suoi servi. Come una catena al collo. Ma invece il padrone non è un essere divino. E le persone non sono scimmie capaci solo di imitare». E qui cita Shariati parlando ai mullah, cioè ai religiosi di professione: ricordatevi che non siete profeti né Imam, non potete considerare la gente come dei subumani.
E’ la teorizzazione del «protestantesimo islamico» (che per Aghajari è intrinsecamente «logico, pratico, umanista, meditativo e progressista») caro a Shariati: l’inutilità di mediazioni tra uomo e Dio, la totale adesione di «questo» Islam alla contemporaneità. Ecco l’intuizione: «Non abbiamo bisogno di rivolgerci al clero. Ogni persona è il suo proprio clero.... I capi religiosi insegnavano che se capisci il Corano da solo hai commesso un reato. Temevano che il loro potere sarebbe finito se i giovani avessero imparato a leggere il Libro da soli». Ecco perché Aghajari è in carcere. E, in parte, ecco le radici culturali delle proteste.
L’agitazione nelle università (oltre a Teheran anche a Mashad) intanto prosegue ma la situazione sembra meno tesa. Trenta persone sono state arrestate ieri nella capitale. L’accusa è di «teppismo», termine usato dal potere per accusare «provocatori stranieri», ovvero degli Stati Uniti. Proprio ieri l’Iran ha protestato con Washington attraverso l’ambasciata svizzera a Teheran che cura gli interessi Usa nel paese degli Ayatollah per la «chiara interferenza americana negli affari interni iraniani» dopo l’appoggio del presidente George W. Bush alle rivolte universitarie. Teheran pensa a un ricorso davanti a una Corte internazionale, secondo il portavoce del ministero degli Esteri Hamid Reza Asefi.
Ma un esponente progressista di spicco, Reza Khatami, vicepresidente del Parlamento e fratello del presidente della Repubblica Mohammad Khatami, gli ha risposto sostenendo che «non vi è insulto peggiore per un popolo che quello di dire che è controllato dall'estero» ed ha ammesso che gli studenti criticano «la nostra indecisione nel realizzare i programmi, e io accetto questa critica».

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