Da Corriere della Sera del 25/06/2003

Zinni: «La sicurezza nel Paese è insufficiente. Ora serve una forza internazionale dell’Onu»

«Ci vogliono anche forze dell'ordine e un esercito iracheni. Da soli rischiamo di non farcela»

di Ennio Caretto

WASHINGTON - Il segretario di Stato Colin Powell ha tale fiducia nell'ex compagno d'armi Anthony Zinni che l'anno scorso lo incaricò di mediare tra israeliani e palestinesi e che quest'anno lo avrebbe mandato in Iraq se non fosse divenuto, nel frattempo, presidente di una grande società. Zinni, figlio di italiani - parla ancora la nostra lingua - è uno dei massimi esperti Usa del Golfo Persico. Combattè nella guerra del '91 sotto Bush padre, diresse la difesa e l'assistenza dei curdi nell’Iraq del nord negli anni successivi, e fu il predecessore del generale Tommy Franks, il vincitore di Saddam Hussein, al Comando centrale delle forze armate, che va dal Medio Oriente all'Asia centrale.
La sua critica della situazione in Iraq, che a suo parere doveva comunque essere liberato dal raìs, riflette opinioni diffuse al Dipartimento di stato.

La sicurezza a Bagdad innanzitutto. E' adeguata?
«No, e non lo è nel resto dell’Iraq, come dimostra il fatto che perdiamo quasi un uomo al giorno, e continuiamo a fare vittime tra i civili. E' il problema più urgente, e va risolto in fretta. Ci vogliono più soldati e più strutture, cosa che sarà possibile soltanto con una forte presenza internazionale. E ci vogliono soprattutto forze dell'ordine e un esercito iracheni. Da soli rischiamo di non farcela».

Come mai la situazione è così instabile?
«Per vari motivi. L'amministrazione non ha pianificato bene il dopo Saddam, ha incominciato a farlo solo uno o due mesi prima che entrassimo in guerra. Molti iracheni pensano che il raìs sia ancora vivo e temono di collaborare con noi, altri ci combattono perché ci giudicano degli invasori o degli infedeli. Ci sono Paesi come la Siria che fomentano torbidi per scopi loro. E la gente è senza lavoro e senza soldi, e quindi strumentalizzabile».

Che cosa pensa dell'attacco di ieri agli inglesi?
«Che i focolai di resistenza e di terrorismo crescono. Non credo che ci sia un corpo armato nazionale organizzato, ma esistono vari gruppi che cercano di coordinarsi tra di loro: baatisti, combattenti stranieri, estremisti sciti, tribù locali. Noi e gli inglesi rischiamo di diventare il loro bersaglio e di essere coinvolti in lotte intestine».

Lei crede davvero che una polizia e un esercito iracheni ripristinerebbero l'ordine?
«Sì, a due condizioni: che siano selezionati con cura e che siano appoggiati dalla ripresa dei pubblici servizi, dalla nascita di solide istituzioni, dal rilancio dell’economia e dalla formazione di un governo iracheno, anche solo ad interim . Queste sono le fondamenta dell'autonomia e dello sviluppo di qualsiasi Paese. Siamo in ritardo in ogni campo, anche se l'ambasciatore Bremer si sta muovendo».

Che tipo di presenza internazionale suggerisce?
«Si parla della Nato, come in Afghanistan, ma secondo me sarebbe meglio l'Onu. E' l'Onu che legittima operazioni di questo genere, che ha esperienza nel ricostruire le nazioni e che può avvalersi di polizie militari come i carabinieri italiani, che ho ammirato in Somalia e in Bosnia. Ed è l'Onu che nelle questioni più delicate, come il petrolio, può procurarci la credibilità e la fiducia della popolazione».

La cattura o la scoperta della morte di Saddam Hussein modificherebbe la situazione?
«Certo, e a nostro vantaggio, come la modificherebbe il ritrovamento delle armi di sterminio del raìs. Se Saddam non riemergerà, come non è riemerso Bin Laden in Afghanistan, se non troveremo le armi, il nostro compito rimarrà molto difficile. Ho accennato al petrolio: bisogna prevenire gli attentati agli oleodotti, ma come presidiarli tutti? Non mi sorprenderei se dovessimo rimanere in Iraq per 5 anni o più. Lo teme anche il Congresso».

Col senno di poi, la guerra all’Iraq è stata un errore?
«No. Mi sarebbe piaciuto che fosse avvenuta su mandato dell'Onu. Ma il raìs era un feroce dittatore e un fattore destabilizzante in Medio Oriente e nel Golfo Persico. Col passare del tempo sarebbe diventato una mortale minaccia per i Paesi vicini e per noi, oltre che per il suo popolo. E' stata una guerra di liberazione, non di conquista, e gli americani la hanno approvata in quanto tale».

Stando al New York Times , c'è un'alleanza contro gli Usa tra gruppi iracheni e iraniani.
«Non ne dubito. Chiunque voglia ledere gli interessi americani nella regione, compresi i gruppi terroristici come Al Qaeda, ha nell'Iraq di oggi il suo campo di battaglia. L'Iran intende farne uno stato islamico. L'amministrazione Bush non può permetterlo, sarebbe un pericolo per Israele. Il suo obbiettivo è di fare dell'Iraq una democrazia, un modello in Medio Oriente. E' diverso dal liberarlo».

Da un sondaggio del Washington Post, molti americani appoggerebbero l'uso della forza contro Teheran.
«La tensione tra Washington e Teheran sta crescendo, ma non mi risulta che l'amministrazione voglia attaccarla. Il presidente preferisce risolvere la crisi con la diplomazia, allo stesso modo della Corea del Nord. Al momento, inoltre, il nostro esercito è impegnato in Iraq, Afghanistan, Corea, non potrebbe andare anche in Iran. E le incognite di un conflitto sarebbero molto gravi».

La democratizzazione dell’Iraq e la pace tra israeliani e palestinesi cambierebbero gli equilibri mediorientali?
«Presumo di sì. Non subito, ma a poco a poco. Comunque non sono imprese realizzabili nel giro di un anno, come ho detto. Per fortuna, il presidente Bush si è impegnato in prima persona nel rilancio del negoziato tra israeliani e palestinesi, mantenendo la parola. Dopo l'Afghanistan e l'Iraq è il terzo atto del dramma apertosi con le stragi delle Torri gemelle, il più importante. Pace in Israele significa pace nella regione».

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