Da Corriere della Sera del 09/06/2003

Il remo di Varsavia questa volta evita il naufragio

di Sergio Romano

Tutti sapevano, dopo gli ultimi sondaggi, che la maggioranza dei votanti sarebbe stata favorevole all’adesione. Ma tutti temevano che un numero considerevole di euroscettici si sarebbe astenuto dal voto e avrebbe impedito il raggiungimento del quorum (50%). Fallito il referendum, il problema dell’adesione sarebbe passato al Parlamento dove la ratifica del trattato avrebbe richiesto una maggioranza di due terzi. Vi sarebbe stata una crisi di governo, l’incertezza avrebbe dato un brutto colpo all’economia, la Borsa sarebbe crollata, la disoccupazione (18%) sarebbe andata alle stelle e gli amici della Polonia, da Washington a Bruxelles, avrebbero dovuto precipitarsi al capezzale di un Paese malato. Le grandi prove elettorali, soprattutto in Europa, non sono più un evento esclusivamente nazionale. Siamo tutti, ormai, in una stessa barca. Se un remo si rompe, gli altri debbono correre ai ripari o afferrare il salvagente. Il pericolo del naufragio, questa volta, è stato evitato. La soddisfazione per il risultato di Varsavia non è dettata soltanto da ragioni pratiche e contingenti. Il voto chiude una lunga fase storica nel corso della quale la Polonia ha precariamente vissuto fra il ricordo di un glorioso passato e la constatazione di una realtà intollerabile. La crisi comincia con il declino del grande Stato polacco nella seconda metà del Settecento. Spartita e divorata dai suoi tre grandi vicini (Austria, Prussia e Russia), la Polonia cessa di esistere nel 1797. Il ducato di Varsavia, creato da Napoleone nel 1807, è soltanto un satellite della Francia. La Polonia del Congresso, ricostituita dopo i trattati del 1815, è un regno russo. E la Repubblica di Cracovia, ultimo baluardo dell’indipendenza polacca dopo la fine delle guerre napoleoniche, diventa nel 1846 una dipendenza austriaca. Ma i polacchi non rinunciano al loro passato. Non hanno più un territorio, ma hanno una lingua, una grande cultura letteraria, i versi di Mickiewicz, le note di Chopin, la memoria del coraggio di Kosciuszko e una inesauribile energia nazionale. Insorgono contro la Russia nel 1830 e perdono nuovamente la loro indipendenza nel 1831. Si ribellano in Galizia nel 1846, ma non riescono ad approfittare delle rivoluzioni del 1848. Ritornano sulle barricate nel 1863, ma subiscono una nuova sconfitta nell’aprile del 1864. E quando non possono combattere per se stessi, corrono ad arruolarsi nelle file del Risorgimento italiano o in quelle dell’esercito papale. Nel 1865, dopo l’ultimo insuccesso delle fortune polacche, un grande storico francese, Jules Michelet, scrive La Polonia martire e grida dalle pagine del suo libro, in latino, « Vivat Polonia !» .
La speranza si realizza finalmente nel 1918, dopo la sconfitta della Russia e degli imperi centrali. Ma il senso della misura e della moderazione sembra essere estraneo alla storia polacca. Emersa da 120 anni di servitù nazionale, la Polonia vuole essere nuovamente, come in passato, un impero dell’Europa centrorientale e chiede alla Russia bolscevica le frontiere del 1772, allorché Varsavia governava, insieme alla Lituania, una buona parte della Bielorussia e dell’Ucraina. Comincia così, come in un ossessivo remake storico, una ennesima guerra russo-polacca che si conclude con il patto di Riga del 1921. Dopo i trattati di Versailles e qualche assestamento territoriale, la Polonia è nuovamente grande, ma deve le sue dimensioni all’annessione di territori che erano stati parte integrante della Germania e della Russia. Ha riconquistato il suo passato, ma ha creato le condizioni per un futuro tempestoso. Con la disputa sul corridoio di Danzica e l’aggressione tedesca del 1° settembre 1939, la Polonia precipita nuovamente nel ciclo delle spartizioni e delle mutilazioni. Riconquista la sua indipendenza nel 1945, ma diventa, quasi senza intervallo, un satellite sovietico.
Il desiderio di indipendenza emerge dalle astensioni nel referendum di ieri e si è manifestato anche in alcune recenti tendenze del governo di Varsavia. La Polonia ha scelto di appartenere all’Unione, ma si comporta talvolta come se i suoi rapporti con gli Stati Uniti dovessero servire a garantirle una maggiore autonomia. Lo ha dimostrato quando ha ceduto alle pressioni americane e comprato gli aerei F16 della Lockheed anziché i Gripen anglo-svedesi o i Mirage francesi. E lo ha confermato recentemente assumendo sulla questione irachena una posizione filoamericana che è parsa a molti un fattore di divisione e una esplicita dichiarazione di autonomia, indirizzata soprattutto ai due Paesi occidentali, Francia e Germania, che hanno avuto nella sua storia una parte determinante. Per certi aspetti la Polonia ricorda la Spagna: un Paese «imperiale» che ha un passato ingombrante e non sembra disposto a giocare sino in fondo le carte dell’integrazione europea. Forse la sola via di uscita, di fronte a questa prospettiva, è quella di puntare sulle cooperazioni rafforzate fra i Paesi dell’Europa originale a cui alludeva Tommaso Padoa-Schioppa nel suo editoriale di ieri. Per ora, comunque, « Vivat Polonia !» .

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