Da Corriere della Sera del 26/05/2003
Secondo la Casa Bianca solo il ritiro del vecchio leader aprirà la strada ai negoziati
Ma Arafat rifiuta di farsi da parte «Il primo ministro? L’ho scelto io»
di Ennio Caretto
WASHINGTON - La Casa Bianca applaude al «sì» di Israele alla road map , sorvolando sul fatto che il governo Sharon ponga numerose condizioni. «E' un importante passo avanti - proclama il portavoce della Casa Bianca, Adam Levine -, vogliamo lavorare assieme a tutte le parti per realizzare la visione di pace del nostro presidente». E conferma che Bush potrebbe partecipare a un vertice con il premier israeliano Ariel Sharon e il premier palestinese Abu Mazen a Sharm el Sheikh, in Egitto, o ad Aqaba in Giordania, il 4 o 5 giugno, al termine della sua visita in Europa. Se il summit, il primo da quello di Camp David nel 2000, avesse luogo - cosa ancora non certa - forse segnerebbe una svolta in Medio Oriente. Ma la Casa Bianca tace su un particolare cruciale: il peso che il fantasma di Arafat, il «grande vecchio» che ha alimentato il sogno della Palestina, avrebbe su di esso.
E’ un peso che Arafat stesso ha ribadito ieri, in un’ambigua intervista al giornale arabo Asharq al Awsat. «Non mi dimetto, resto - ha dichiarato -. Non mi farò da parte, ma morirò da martire». Il leader palestinese ha ammesso che tra lui e Abu Mazen «non c'è pieno coordinamento, ciascuno fa il suo lavoro», ma ha anche smentito che esistano serie divergenze: «Come è possibile, se l'ho nominato io?». E ha ribadito il suo impegno alla pace, ma qualificandolo così: «Sebbene io sia contro l’uccisione dei civili israeliani o palestinesi, il mio popolo ha il diritto di resistere all’occupazione». Arafat ha negato recisamente di fomentare il terrorismo: «Sharon non ha alcuna prova contro di me, sono invenzioni, fandonie».
Decisa a ignorare Arafat, la Casa Bianca ha rifiutato di commentare l'intervista. Ha parlato invece il senatore democratico Joe Lieberman, uno dei candidati alla Presidenza nel 2004: stigmatizzando la visita di Dominique de Villepin al raìs a Ramallah fissata per oggi, Lieberman ha detto che «il ministro degli Esteri francese rende più difficile la pace, perché Arafat è l'ostacolo più grave alla sua conclusione». Il senatore ha ammonito che se l'Europa, l'Onu e la Russia continueranno a considerare il presidente palestinese un interlocutore valido «l'America dovrà prendere le distanze dal resto del quartetto della road map ». Lieberman ha reso pubblico ciò che l'amministrazione Bush ripete dietro le quinte agli alleati: che Arafat deve divenire irrilevante e che la sua sola permanenza al potere, per quanto dimezzato, è un incitamento alla violenza.
Alcuni esperti americani, come l'ex mediatore Dennis Ross, ritengono che la lotta per il potere a Ramallah sia ancora aperta, soprattutto a causa della debolezza di Abu Mazen, «un leader impopolare, assediato dai terroristi», come l’ha definito il New York Times . Il premier, secondo il quotidiano, è anche oggetto di un’occulta campagna di calunnie tra i palestinesi: venerdì a Gerusalemme, nella spianata delle moschee, sono stati distribuiti agli arabi in preghiera migliaia di volantini che lo accusavano di non essere un buon musulmano, bensì di appartenere alla Bahai, una setta popolare nell’Ottocento. Chiara, nelle intenzioni, la contrapposizione ad Arafat, custode della fede e della patria.
Secondo gli esperti, finché la partita tra Arafat e Abu Mazen, o meglio tra ciò che essi rappresentano, non verrà chiusa, sarà impossibile raggiungere la pace. Gli esperti sottolineano che Arafat è un simbolo a cui gli arabi non rinunceranno facilmente, e che Sharon dovrebbe rafforzare Abu Mazen con qualche concessione che apra il negoziato. Ma come rileva il New York Times , «un’infame spirale di sospetti e di paure» risucchia israeliani e palestinesi, e soltanto l'intervento personale di Bush è in grado di spezzarla. Il giornale chiede al presidente Usa di costringere i primi a smantellare alcuni insediamenti e i secondi a combattere simultaneamente il terrorismo, se necessario ricattandoli: «Nessun altro può riuscirci».
Nel nuovo panorama politico, l'obiettivo americano nei territori palestinesi è «un cambiamento di regime» come in Iraq, che contribuisca a conferire un nuovo assetto al Medio Oriente. Ma i mezzi da usare sono assai diversi: Arafat non può essere rovesciato all'improvviso e con le armi, a differenza di Saddam Hussein; può essere messo da parte solo dalla volontà popolare, democraticamente. Ma perché ciò avvenga, i palestinesi devono prima toccare con mano che la «strategia del confronto» di Arafat era sbagliata, e che quella del dialogo di Abu Mazen è più giusta. Cosa che dipende anche dalla buona volontà di Sharon.
E’ un peso che Arafat stesso ha ribadito ieri, in un’ambigua intervista al giornale arabo Asharq al Awsat. «Non mi dimetto, resto - ha dichiarato -. Non mi farò da parte, ma morirò da martire». Il leader palestinese ha ammesso che tra lui e Abu Mazen «non c'è pieno coordinamento, ciascuno fa il suo lavoro», ma ha anche smentito che esistano serie divergenze: «Come è possibile, se l'ho nominato io?». E ha ribadito il suo impegno alla pace, ma qualificandolo così: «Sebbene io sia contro l’uccisione dei civili israeliani o palestinesi, il mio popolo ha il diritto di resistere all’occupazione». Arafat ha negato recisamente di fomentare il terrorismo: «Sharon non ha alcuna prova contro di me, sono invenzioni, fandonie».
Decisa a ignorare Arafat, la Casa Bianca ha rifiutato di commentare l'intervista. Ha parlato invece il senatore democratico Joe Lieberman, uno dei candidati alla Presidenza nel 2004: stigmatizzando la visita di Dominique de Villepin al raìs a Ramallah fissata per oggi, Lieberman ha detto che «il ministro degli Esteri francese rende più difficile la pace, perché Arafat è l'ostacolo più grave alla sua conclusione». Il senatore ha ammonito che se l'Europa, l'Onu e la Russia continueranno a considerare il presidente palestinese un interlocutore valido «l'America dovrà prendere le distanze dal resto del quartetto della road map ». Lieberman ha reso pubblico ciò che l'amministrazione Bush ripete dietro le quinte agli alleati: che Arafat deve divenire irrilevante e che la sua sola permanenza al potere, per quanto dimezzato, è un incitamento alla violenza.
Alcuni esperti americani, come l'ex mediatore Dennis Ross, ritengono che la lotta per il potere a Ramallah sia ancora aperta, soprattutto a causa della debolezza di Abu Mazen, «un leader impopolare, assediato dai terroristi», come l’ha definito il New York Times . Il premier, secondo il quotidiano, è anche oggetto di un’occulta campagna di calunnie tra i palestinesi: venerdì a Gerusalemme, nella spianata delle moschee, sono stati distribuiti agli arabi in preghiera migliaia di volantini che lo accusavano di non essere un buon musulmano, bensì di appartenere alla Bahai, una setta popolare nell’Ottocento. Chiara, nelle intenzioni, la contrapposizione ad Arafat, custode della fede e della patria.
Secondo gli esperti, finché la partita tra Arafat e Abu Mazen, o meglio tra ciò che essi rappresentano, non verrà chiusa, sarà impossibile raggiungere la pace. Gli esperti sottolineano che Arafat è un simbolo a cui gli arabi non rinunceranno facilmente, e che Sharon dovrebbe rafforzare Abu Mazen con qualche concessione che apra il negoziato. Ma come rileva il New York Times , «un’infame spirale di sospetti e di paure» risucchia israeliani e palestinesi, e soltanto l'intervento personale di Bush è in grado di spezzarla. Il giornale chiede al presidente Usa di costringere i primi a smantellare alcuni insediamenti e i secondi a combattere simultaneamente il terrorismo, se necessario ricattandoli: «Nessun altro può riuscirci».
Nel nuovo panorama politico, l'obiettivo americano nei territori palestinesi è «un cambiamento di regime» come in Iraq, che contribuisca a conferire un nuovo assetto al Medio Oriente. Ma i mezzi da usare sono assai diversi: Arafat non può essere rovesciato all'improvviso e con le armi, a differenza di Saddam Hussein; può essere messo da parte solo dalla volontà popolare, democraticamente. Ma perché ciò avvenga, i palestinesi devono prima toccare con mano che la «strategia del confronto» di Arafat era sbagliata, e che quella del dialogo di Abu Mazen è più giusta. Cosa che dipende anche dalla buona volontà di Sharon.
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