Da La Repubblica del 17/11/2001
Originale su http://www.repubblica.it/online/speciale/diciassettenovembre/diciasset...

Il terrorismo dei kamikaze e il declino di Bin Laden

di Gilles Kepel

L'ascesa dei Taliban aveva beneficiato dell'appoggio interessato degli Stati Uniti. Dopo la caduta di Kabul nelle mani dei mujahiddin nell'aprile 1992, infatti, si era insediata un'anarchia sanguinosa e devastatrice. L'ascesa al potere dei Taliban, finanziati e armati dai servizi speciali pakistani, aveva permesso in un primo momento di ristabilire l'ordine. Dopo quattro anni di devastazioni, di omicidi, di stupri e di saccheggi da parte dei comandanti delle fazioni dei mujahiddin, l'arrivo a Kabul nel 1996 degli "studenti di religione" aveva migliorato - temporaneamente - le condizioni della popolazione della capitale.

Per Islamabad e Washington, poco importava che il nuovo ordine fosse una della versioni più retrograde dell'Islam nella sua versione letterale e rigida. L'ordine regnava e questo ordine garantiva al Pakistan uno stato alleato sul fianco nord ovest. Inoltre, aveva visto la luce un grande progetto di un gasdotto per evacuare gli idrocarburi dal Turkmenistan, uno stato incuneato a nord dell'Afghanistan e dell'Iran.

Gli Stati Uniti favorirono il disegno di un gasdotto che passasse per l'Afghanistan e sboccasse in Pakistan. I Taliban, ancora una volta, garantivano l'ordine, e i petrolieri americani erano abituati a trattare con i regimi più retrogradi e a sovvenzionarli, a patto che garantissero il regolare flusso di idrocarburi. Il progetto non fu mai realizzato ma il regime dei Taliban era rimasto al suo posto, vivendo del contrabbando, del traffico dell'oppio e affidando alle Ong umanitarie presenti a Kabul la gestione delle questioni sanitarie e sociali.

Tutte queste ragioni fanno sì che l'appoggio pakistano e saudita alla risposta americana agli attentati dell'11 settembre s'iscriva in un gioco di interessi complicati e profondamente ingarbugliati. Lo stesso può dirsi del personaggio di Osama Bin Laden e, più ancora, della figura mitica che intorno a lui è stata costruita dalla televisione.

All'inizio del 1996, anche il regime sudanese, desideroso di allentare la pressione internazionale nei propri confronti, era disposto a consegnare Bin Laden agli Stati Uniti. Questi ultimi, temendo l'esito di un processo in cui l'accusa non disponeva di prove sufficienti, avevano suggerito un'estradizione verso l'Arabia Saudita, il cui sovrano, poco desideroso di dover far tagliare la testa a un proscritto che conservava solide reti di amicizie nel regno, aveva declinato quest'offerta. Fu così che il 18 maggio 1996 Bin Laden lasciò il Sudan alla volta dell'Afghanistan, a seguito di un accordo raggiunto in contumacia dagli Stati interessati.

Bin Laden, all'epoca, non era ancora il nemico numero uno degli Stati Uniti. Il suo allontanamento in Afghanistan rappresentava una maniera per esiliarlo in un paese privo di risorse e di mezzi di comunicazione e per rendergli più difficile l'accesso alle sue risorse finanziarie: speranze che dovevano dimostrarsi chimeriche. Qualche settimana più tardi, il 23 agosto, Bin Laden, pubblicando la sua prima "dichiarazione di jihad contro gli americani che occupano la terra dei Luoghi santi", manifestava di essere sul punto di mettere in piedi un'alleanza efficace con il regime dei Taliban (Kabul cade definitivamente nelle loro mani nel settembre) e allo stesso tempo si faceva difensore della classe dei "grandi commercianti" sauditi oppressi dalla monarchia, un ceto da cui egli stesso proviene. Il 1996 è un anno importante per l'evoluzione del movimento islamico arabo.

I tre principali fronti della jihad aperti dopo l'Afghanistan dai militanti salafistijihadisti provenienti dai campi di Peshawar non hanno mantenuto le loro promesse: la Bosnia, dopo gli accordi di Dayton nel dicembre 1995, è rientrata nell'orbita occidentale e i "jihadisti" ne sono stati espulsi; in Egitto e in Algeria, la violenza è sfuggita al controllo, terrorizzando le popolazioni stesse, alcune delle quali avevano simpatizzato con la causa all'inizio del decennio. I regimi del Cairo e di Algeri stavano giusto per riportare una vittoria militare sui loro avversari. Di fronte a questa impasse politica, il terrorismo più spettacolare si viene profilando come il tentativo per eccellenza di rilanciare la dinamica della lotta violenta.

Il terrorismo del settembre 2001 presenta alcune somiglianze, ma anche alcune sorprendenti differenze con quello degli anni novanta. Se si mettono a confronto le dichiarazioni di Bin Laden e dei suoi luogotenenti il 7 ottobre e i testi da lui diffusi nel 1996 e nel 1998, le giustificazioni ideologiche s'iscrivono nella stessa linea. La guerra contro gli Stati Uniti, accusati di aver invaso la terra d'islam "occupando il territorio dei due luoghi santi" (attraverso le basi militari americane in Arabia Saudita), giustifica agli occhi di Bin Laden una jihad difensiva, simile a quella che aveva sferrato contro l'Unione Sovietica dopo l'entrata dell'Armata rossa a Kabul nel 1979. Infine, più che mai, Bin Laden e i suoi compagni si sforzano di costruire un'immagine che si modella sulla rappresentazione che i musulmani si fanno del Profeta.

Come lui - che nel 622 fu costretto a fuggire dalla Mecca idolatrica, effettuando la sua egira verso Medina, conducendo durante quegli otto anni audaci colpi di mano, poi rientrando da vincitore nel 630 - Bin Laden è fuggito dall'Arabia Saudita "ipocrita" in una sorta di egira verso le aride montagne dell'Afghanistan, da cui conduce la sua jihad sotto la guida divina. Ci si è a lungo interrogati sulle ragioni per cui Bin Laden non ha mai rivendicato gli atti che gli venivano attribuiti: nella dichiarazione diffusa il 7 ottobre, imputando il massacro di New York e di Washington alla sola volontà divina ("Ecco l'America colpita dall'onnipotente Allah in uno dei suoi organi vitali"), si sforza di presentarla come un miracolo: "Allah ha benedetto un gruppo di musulmani d'avanguardia, ferro di lancia dell'islam, per distruggere l'America". E questo miracolo è capace di colpire gli animi, di persuadere i credenti - almeno questo prevede Bin Laden - cui indica la giusta via da seguire. Ma tale "avanguardia" è in grado di mobilitare le masse e di sconvolgere in maniera duratura l'ordine mondiale, di far cadere i regimi al potere nei paesi musulmani e di instaurare sulle loro macerie lo stato islamico che sognano i militanti, dopo l'apocalisse degli attentati? Si osserverà come si sia prodotto un mutamento fra gli attivisti dei gruppi di terroristi islamici identificati durante gli anni novanta e quelli del 2001.

Questo mutamento dà un impatto incommensurabilmente più grande ai loro attentati più recenti, ma in cambio diminuisce l'inserimento sociale di questi gruppi e la loro capacità di trovare legami. I primi elementi di identificazione di cui disponiamo sui kamikaze di New York e Washington indicano che si tratta di individui provenienti da ceti piuttosto benestanti, che hanno spesso compiuto studi superiori, padroneggiano le lingue e i codici culturali delle società occidentali in cui si muovono senza problemi. Una parte non indifferente di loro proviene dalla penisola arabica.

Colpisce ancor più il fatto che, diversamente dai loro predecessori, essi dissimulano accuratamente qualsiasi "segno esteriore" di appartenenza al movimento islamico, ostentano un volto glabro; alcuni si sarebbero persino fatti vedere in qualche bar, bicchiere d'alcol alla mano, in compagnia di donne. Rimane da valutare in quale misura il cataclisma che si è abbattuto sull'America l'11 settembre 2001 riuscirà, come prevedono i suoi autori, a invertire la logica di declino in cui era inserito il movimento islamico alla fine del decennio appena trascorso, o se invece condurrà, nelle società musulmane come in Occidente, a una presa di coscienza che l'avvenire di quella parte del mondo passa necessariamente attraverso la riconciliazione di un patrimonio culturale e religioso da cui proviene una delle grandi civiltà dell' umanità, con le esigenze e le regole delle società democratiche, in un universo in cui le culture e gli uomini sono più interdipendenti e legati gli uni agli altri di quanto siano mai stati.

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