Da La Stampa del 21/05/2003

«Rischiamo di fare la fine dell’Iraq e dell’Afghanistan»

In Iran appello per le riforme firmato anche da membri del clero: basta con la tirannia della religione

di Mimmo Candito

Nelle poche settimane passate dalla liberazione/occupazione dell'Iraq, molte volte si è riproposta la domanda se quanto ha ottenuto la guerra di Rumsfeld-Bush sia da considerarsi davvero una «rivoluzione», cioè un processo di trasformazione profonda, di mutazione autentica, dei soggetti politici e dei sistemi di governo delle aree che si distendono tra il Golfo e il Vicino Oriente. La notizia che arriva ora da Teheran - di un «Manifesto liberale» - spinge decisamente verso un’ipotesi di risposta positiva, lasciando immaginare che una sorta di «effetto domino» (proprio come i neo-conservatori speravano) sta scuotendo dall'interno il corso degli equilibri politici, e si va attivando una dinamica destinata a cambiare molte delle leadership che hanno dominato le autocrazie conservatrici - e immobiliste - di quest'area. Il «Manifesto» reso pubblico ieri è uno strumento di crisi molto rilevante, non solo per quello che proclama: il rifiuto della «tirannia religiosa», e la richiesta di «libertà e giustizia» a partire dal rilascio dei prigionieri politici. Ma soprattutto per i nomi che appaiono nelle firme del documento: anzitutto Hashem Aghajari, l'intellettuiale condannato a morte per l'accusa di blasfemia - condanna sospesa - dopo la sua rivendicazione d'una «lettura» individuale, libera, del Corano, in opposizione al dovere d'una obbedienza cieca alla «lettura» ufficiale del potere religioso (un simile intento appare dirompente perché delegittima gli ayatollah); ma poi anche molti religiosi, l'hojatoleslam Mohsen Kadivar, già condannato per insulti alla Guida Suprema Khamenei, il mullah Hassan Yousef Ashkevari, anch'egli condannato per aver detto che l'Islam non impone affatto alle donne d'andare coperte da capo a piedi. E ancora il presidente della Commissione parlamentare dei diritti umani, Hossein Ansar Rad, l'ex-viceministro dei servizi segreti, Said Hajarian, anche due ministri del primo governo rivoluzionario, quello ch'era presieduto da Mehdi Bazargan: il ministro degli Esteri, Ebrahim Yazdi, e quello della Giustizia, Hay Seyed Javadi. I firmatari avvertono che senza un radicale processo di riforme il Paese rischia di fare la stessa fine dell'Iraq di Saddam Hussein e dell'Afghanistan dei talebani. La presenza delle truppe americane nelle pianure irachene, appena al di là del confine, ha scosso profondamente i sentimenti della società irachena e ha riacceso il dibattito delle forze politiche. E un’insofferenza non più mascherata ha cominciato a segnare le relazioni tra le opposte parti del Parlamento. Il «Manifesto» arriva come risposta sdegnata agli ultimi diktat della Corte costituzionale iraniana, il Consiglio dei Guardiani, dominato nettamente dai conservatori. Il Consiglio ha appena bocciato due leggi che il presidente della repubblica, Mohammad Khatami, giudica «vitali» per un rinnovamento del Paese: la prima puntava a cancellare il diritto di veto che i Guardiani hanno sulle candidature per le elezioni, la seconda dava a Khatami il potere di giudicare la costituzionalità delle sentenze della magistratura, anch'essa dominata dai conservatori. Bloccando le due leggi, si riaffermava definitivamente la supremazia dei conservatori dell'ayatollah Khamenei, e si privava Khatami (e la sua parte riformista) d'ogni speranza di fare della maggioranza parlamentare lo strumento per rispondere alle aspettative di cambio della società, emarginando il blocco rigido costituito dalla Guida Spirituale e dei suoi Guardiani della Rivoluzione. «Siamo preoccupati per la minaccia straniera che sta al di là della frontiera, ma odiamo la tirannia religiosa», dice il «Manifesto», che esprime «una forte insoddisfazione per la gestione del Paese», e denuncia come «alcuni organi non eletti tentano di arginare il volere del popolo, che si è pronunciato attraverso la scelta dei suoi rappresentati in Parlamento». La soluzione della crisi sta nella creazione di «una vera democrazia, che si realizzi attraverso la libera elezione di tutte le autorità». Pubblicato sul giornale riformista «Yas-e Now», il «Manifesto» è stato però ignorato dalla tv e dalla radio, controllate dall'ayatollah Khamenei. La struttura politica dell'Iran è quella della Repubblica presidenziale, però il ruolo di Khamenei come Guida Spirituale fa dell'ayatollah un incontestabile SuperPresidente, dandogli facoltà di porre il veto a qualsiasi progetto politico del Parlamento o della Presidenza, sia direttamente, sia indirettamente attraverso le manovre del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Il «Manifesto» riprende in termini di progetto politico la forte insoddisfazione popolare che quattro anni fa s'era catalizzata nelle grandi manifestazioni studentesche che avevano traversato le strade e le piazze dell'Iran, da Teheran a Mashad a Isfahan. Quelle manifestazioni (ci furono morti, feriti, condanne a morte, galera) furono una sorta di «Sessantotto iraniano», e sembrarono davvero a un passo dal rovesciare il potere degli ayatollah; ma poi la repressione, e una pavida passività della società, impedirono la crescita, e l'efficacia politica, del Movimento. E Khamenei riprese il controllo del Paese, rendendo sempre più evidente la crisi del progetto riformista di Khatami. Il «Manifesto» riapre ora uno spazio politico che sembrava impraticabile. Riaccende una speranza e provoca il potere. Al di là della frontiera, gli uomini di Rumsfeld guardano e aspettano.

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