Da Corriere della Sera del 13/05/2003

Tutti si chiedono che ne sarà di Cuba dopo Fidel ...

di Ettore Mo

L’AVANA - Tutti si chiedono che ne sarà di Cuba dopo Fidel Castro: e sono pure in molti a chiedersi se il líder máximo , 77 anni, riuscirà a mantenere il potere (di sovrano assoluto) fino alla fine dei suoi giorni o se invece - vittima di un complotto o d’altro - sarà costretto a lasciare trono e scettro mentre è ancora in vita. Impossibile azzardare una previsione del genere in questi momenti di grande crisi per la maggiore isola delle Antille: ancora turbata dal «giro di vite» che il «Jefe» ha impresso il mese scorso al suo regime, mettendo al muro tre poveri incapaci che avevano tentato di dirottare un battello e mandando in prigione 78 «dissenzienti» che dovranno scontare complessivamente 1454 anni di galera. È in declino la popolarità di Fidel? Per chi ha assistito al suo tradizionale discorso del 1° maggio nella Plaza de la Revolución dell’Avana in mezzo a un milione di persone è un po’ difficile crederlo.
Un torrente, anzi un Niagara di parole come sempre: e nonostante qualche esitazione (che si è potuta notare meglio nella ripresa tv), la sua vis oratoriale ha soggiogato la folla tenendola per ore sotto il sole. Per lui, i tre ragazzi che hanno tentato di dirottare il peschereccio per portarselo sulle coste della Florida non erano degli sprovveduti criminali comuni, ma controrivoluzionari al soldo degli Stati Uniti e della «mafia» cubana di Miami: «A Washington e a Miami - ha detto - oggi si discute dove, come e quando attaccheranno Cuba...Se la formula fosse di attaccare Cuba come (hanno fatto) in Iraq, allora mi spiacerebbe molto per il costo in vite umane e per l’enorme distruzione che comporterebbe. Però in tal modo sarebbe l’ultimo attacco fascista di questa amministrazione, perché la lotta durerebbe molto tempo, dal momento che gli aggressori dovrebbero affrontare non solo un esercito, ma mille eserciti che costantemente si riprodurrebbero... In quanto ai cosiddetti dissidenti, essi sono dei mercenari al soldo del governo hitleriano di Bush e tradiscono non solo la Patria ma anche l’umanità». E come risponde, il Comandante, all’implorazione di clemenza che il Papa gli ha rivolto? «Per Sua Santità Giovanni Paolo II sento un sincero e profondo rispetto. Comprendo e ammiro la sua nobile lotta per la vita e per la pace. Nessuno si oppose tanto intensamente come lui nella guerra contro l’Iraq... Egli sa perfettamente che questo non è un problema interno dei cubani, è un problema tra il popolo di Cuba e il governo degli Stati Uniti».
Sono in molti a dirci di dimenticare chi è stato Fidel, cosa ha fatto per Cuba e continua a fare. Uno di questi è un artista di 64 anni - M. V. -, che è chiaramente comunista: «Qui sono state fatte cose importanti per la popolazione: la medicina, la scuola, giuste priorità perché la salute e l’istruzione garantiscono lo sviluppo fisico e morale di una persona. Se confronti Cuba con altri Paesi del Sud America, ti accorgi subito della differenza. Alcuni sono rimasti nel Medioevo».
M.V. non è morbido neanche con gli intellettuali dissidenti: «Mi pare si stia esagerando. Hanno il sostegno di scrittori e artisti europei. Ora, io non voglio fare d’ogni erba un fascio: ne conosco qualcuno che si batte per le sue idee e va quindi rispettato, altri però - e direi la maggior parte - sono come prefabbricati. Hanno l’appoggio degli americani, acquistano notorietà».
Ma che ne dici dell’economista Espinosa Chepe, che è stato spedito in una squallida prigione di Guantanamo ed è in coma epatico? M.V. non dice niente.
Elizardo Sánchez, che è presidente della Commissione Cubana per i Diritti Umani ed è considerato un po’ il decano dei dissidenti, ha detto in una recente intervista all’ Unità che «il 2003 sarà l’anno peggiore per i diritti umani e sociali e non solo per la nostra isola», lasciando presagire ulteriori «giri di vite» da parte del regime. Per lui, quanto sta avvenendo a Cuba «è qualcosa di simile alla Rivoluzione Culturale Cinese in salsa tropicale».
La repressione degli intellettuali in disaccordo con la linea politica del loro governo risale nel tempo: nel ’71 misero in prigione all’Avana il poeta Herberto Padilla e da allora scrittori e uomini politici di sinistra, non solo sudamericani, cominciarono a nutrire qualche dubbio sul «paradiso» di Fidel e dell’Ernesto Che Guevara, che era il loro Santo Graal.
Ma una delle storie più strazianti l’ho trovata in un libro che ho letto recentemente e s’intitola Prima che sia notte .
Racconta la vicenda di un grande scrittore cubano, Reinaldo Arenas, morto suicida a New York nel 1990, a 47 anni, prima di essere finito dall’Aids. Prima che dissidente, Reinaldo era un omosessuale: «Una colpa imperdonabile - cito il risvolto di copertina - per il regime castrista, che lo perseguitò, lo incarcerò, cercò di annientarlo colpendolo negli affetti, trasformando in delatori i suoi amici, obbligandolo all’umiliazione di una "confessione" e a una "riabilitazione" peggiore della prigionia».
Il libro è anche pieno di oscenità perché lo scrittore è molto esplicito quando parla dei suoi rapporti sessuali fin da ragazzo. Ma se tutto questo lo puoi dimenticare, ciò che non puoi dimenticare è l’ultima pagina, che ospita la «lettera d’addio», dove, annunciando il suicidio, scrive fra l’altro: «Metto fine volontariamente alla mia vita, perché non posso continuare a lavorare. Nessuna delle persone che mi stanno vicino è coinvolta in questa decisione. C’è solo un responsabile: Fidel Castro... Cuba sarà libera. Io lo sono già».
Qualcuno sostiene che l’attuale escalation della repressione potrebbe aver avuto inizio già nel novembre del 2000, quando Fidel sfidò i dissidenti, diciamo così, a viso aperto, scandendo i loro nomi durante uno show televisivo. Uno di quei nomi era Raul Rivero, giornalista «indipendente», che figura tra gli ultimi arrestati. Raul aveva lavorato per un’agenzia ufficiale, Prensa Latina , ma l’avevano licenziato in tronco per una lettera indirizzata a Castro nella quale perorava la liberazione di un prigioniero politico. Nel programma televisivo, il líder máximo lo aveva definito un ubriacone. «Questa è una dittatura scientifica - disse Rivero in quella circostanza -. Essi non ammazzano la gente per strada come Fulgencio Batista, non fanno scomparire la gente come l’ex presidente cileno Augusto Pinochet. Hanno altre tecniche...». «Il regime ha un sistema così efficace per isolare politici e intellettuali scomodi che - sostiene M. V. - quasi nessuno degli undici milioni di cubani ne ha mai sentito parlare».
«Il nostro è un socialismo dollarizzato - dice il proprietario di un centro commerciale, una serie di negozi che disposti su due piani fanno quadrato attorno al patio: il tutto molto cubano e molto coloniale -. La crisi economica esiste e come, ma non tanto per l’embargo. Noi sappiamo arrangiarci. Ce l’abbiamo col governo Usa non coi turisti americani che ci portano qualche dollaro. Siamo un popolo che non porta rancore, abbiamo radici spagnole, africane e anche un tantino cinesi».
Il sospetto che le ultime, estreme decisioni di Castro possano anche essere spiegate con la senilità, visto che il patriarca ha già superato la soglia dell’autunno, non può essere accantonato: ma a sentire gli esperti (chiamiamoli così), l’uomo è ancora lucido e le sue apprensioni - è un eufemismo - per un eventuale attacco americano non sarebbero frutto di isterismo. È nell’interesse degli Stati Uniti creare una forte opposizione nell’Isola oltre che nella «succursale» di Miami, che giustifichi l’intervento: e Bush era pronto a stanziare milioni di dollari per realizzare il progetto. «Tutto può succedere - dicono con circospezione al Centro internacional de Prensa -, ma Fidel ha occupato tutto lo spazio possibile e non ha mai consentito a nessuno dei suoi più stretti collaboratori di emergere al punto da essere considerato il suo erede naturale. Non c’è nessuno con la sua autorità e, diciamolo pure, il suo fascino. E poi si crede proprio che la maggioranza degli undici milioni di cubani non potrebbe immaginarsi una Cuba senza Castro».
Tranne la prima giornata, in cui pioveva, il tempo è stato buono qui nell’Isola: cielo sereno, sole caldo, un po’ di vento. Ricordo che qualcuno ha dato una definizione beffarda dell’Avana, paragonandola a una vecchia senza più un dente che però non ha definitivamente accantonato la propria vanità: e perciò spalma col fondotinta la pelle del viso e si passa il rossetto sulle labbra mettendo ancor più in evidenza la voragine spopolata della bocca. È un paragone ingiusto per una capitale che subito ti coinvolge con la sua vitalità e festosità esplosive. Ma in fondo qualcosa di vero c’è. Se dalle sue quattro sontuose piazze vai a passeggiare nei vicoli, la incontri questa senilità che non si può più truccare perché le ferite del tempo sono mortali. Sotto i portici i muri sono sbrecciati e le porte delle case sono tutte protette da cancelli di ferro come le celle di una prigione. Vedi balconi imbandierati di biancheria che ti possono cadere in testa da un momento all’altro. Ma ci sono anche case dipinte con colori allegri e tenui (il giallo, il verde, addirittura il ciclamino) che sono il maquillage della vecchia signora.
Naturalmente, come ogni buon turista, sono andato a Cojimar dove Hemingway andava a pescare e dove forse ha scritto Il vecchio e il mare ; altrettanto naturalmente sono andato a pranzo al ristorante «La Terrazza» e mi sono seduto al tavolo d’angolo dove sempre lui sedeva a guardare il mare.

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