Da Corriere della Sera del 06/05/2003

La coppia d'Europa

Il radioso semestre italiano dei nemici Silvio e Romano

di Gian Antonio Stella

L’unica cosa sicura è che uno dei due mente. La Grande Coppia del «Predicatore Ridicolo» (parole di Prodi su Berlusconi) e dell’«Utile Idiota» (parole di Berlusconi su Prodi), chiamata tra poco a guidare sorridendo l’Europa nei ruoli rispettivi di presidente di turno e di presidente della Commissione, non poteva indovinare un debutto più esplosivo. Un duello mortale, basato sull’accusa più infamante: avere «giocato sporco» sulla Sme a danno degli italiani. Fino a fornire ciascuno una versione dei fatti così inconciliabile con quella dell’altro da offrire agli stupefatti europei, poco disponibili a leggere tutto come piccole baruffe nostrane, la sola certezza di cui dicevamo: uno dei due statisti italiani è un grandissimo bugiardo. Che i due non si piacciano per niente si sapeva. Troppo diversi: uno ama il calcio e l’altro il ciclismo, uno mangia solo piatti d’alta cucina ospedaliera senza olio né aglio e l’altro va matto per la cucina sugosa, uno s’intenerisce per gli chansonniers e l’altro predilige la musica sinfonica, uno si vanta di avere sette ville in Sardegna dove vola con l’aereo personale e l’altro si picca di mettersi da solo al volante della familiare per andare in vacanza in Puglia. Sono anni che si beccano. Silvio ha via via detto che Romano era «solo un simpatico ciclista» e «un dottor Balanzone misto con Fra’ Giocondo» che «non ha mai fatto la gavetta».
Romano ha ribattuto dicendo che «Goebbels in confronto a Berlusconi era solo un bambino», che la soluzione del conflitto d’interessi con la cessione d’ogni carica Fininvest era «buona per Scherzi a parte », che il Cavaliere usava «un linguaggio da trivio» ed era così poco moderato che lo considerava l’avversario preferito: «Salgo sempre alla Madonna di San Luca per chiederle che me lo conservi».
Una sola volta, al di là della obbligatoria cortesia istituzionale di questi ultimi due anni, i due sono apparsi meno acidi l’uno con l’altro. Quel 16 novembre del 1999 in cui il Professore diede l’addio alla Camera per andare a Bruxelles. L’attuale capo del governo, temendo l’ipotesi che all’Italia fosse chiesto un aumento dei contributi Ue, non l’aveva presa bene all’inizio: «Lo vogliono rottamare in Europa a costo di farci pagare 2 mila miliardi!».
Quel giorno, però, al nemico che l’aveva battuto nel 1996 e ora se ne andava, fece ponti d’oro: «Lei sa bene, presidente, d’aver avuto il mio voto personale e quello dei parlamentari di Forza Italia, sa che mi sono personalmente adoperato, con plurimi interventi, preparando da tempo quanto si è verificato ieri nel Parlamento europeo, affinché questa grande opportunità concessa al nostro Paese di avere dopo tanti anni un Presidente italiano potesse realizzarsi a larga maggioranza».
Parole al miele. Che rilette oggi devono essere costate moltissimo a Berlusconi. Perché, a sentirlo ieri in aula, lui considera il presidente della Commissione un uomo niente affatto raccomandabile. Un « falsus procurator » che si arrogò il diritto che non aveva di «svendere la Sme» di nascosto «a porte chiuse» a un prezzo «sconvolgente, allucinante, scandaloso» regalando «a un privato cittadino» come Carlo De Benedetti un’azienda che invece di 497 miliardi valeva «1300 o 1500 miliardi» ma ancora di più, considerato il valore di immagine di marchi storici come De Rica, Bertolli, Cirio, Pavesi, Motta e Alemagna. Una «spoliazione inaccettabile» ai danni dello Stato contro la quale lui, che pure non aveva interesse alcuno alla materia, fu costretto a intervenire su «affettuosa, ma pressante» richiesta di Bettino Craxi.
E tanto tiene al ripristino della sua «verità processuale», il Cavaliere, da accettare tutti i rischi dello scontro frontale. Come quello di esporsi agli spilli di chi gli ricorderà, come lo stesso Prodi, che il Cda della Sme votò «all’unanimità» la vendita a quel prezzo fissato da due perizie, compreso il voto plaudente di quel Pietro Armani oggi di An. Ai veleni di chi gli contesterà d’aver detto ieri che, fermato l’assalto «indecente», si «disinteressò» completamente della cosa, il che non pare se cinque anni dopo, il 14 gennaio 1990, ristrutturò la cordata Iar senza più Barilla e Ferrero con lo scopo, scrisse Il Sole 24 ore , di «proseguire il giudizio contro l’Iri per l’asta sulla Sme». O ancora alle ironie di chi, dopo anni di appelli e invettive e proclami intorno al garantismo tirati al punto di non considerare una «prova» neppure il passaggio diretto di soldi tra avvocati e giudici, gli rinfaccerà di avere scaraventato addosso al presidente della Commissione europea un sospetto di tangenti basato sulla «voce» che gli disse di «aver sentito» il suo amico Bettino, che non potrà confermare né smentire mai niente perché è morto.
E allora? La guerra è guerra, risponde Berlusconi. Sappia dunque la sinistra che se ha intenzione di andare avanti cavalcando i processi, lui ricambierà colpo su colpo. E se gli altri cercano di delegittimare lui, lui farà di tutto per delegittimare Prodi. Ed è così che la ricostruzione pomeridiana del Professore, stesa in risposta alle parole del Cavaliere in Tribunale, va a sancire una spaccatura non solo politica ma umana, deontologica, morale. E uno dice che Pietro Barilla era indignato perché gli avevano negato che la Sme fosse in vendita e l’altro scrive che era stato lui a rifiutare l’acquisto perché il gruppo intero era «troppo grande e troppo caro». E uno dice che il prezzo fissato era di una «sconvenienza assoluta», l’altro che si trattava del puro e semplice valore delle aziende, alcune indebitatissime, in Borsa. Uno dice di essere stato coinvolto da Craxi in un’operazione di salvataggio di cui è «orgoglioso», l’altro scrive che l’Iri aveva contattato per l’acquisto l’allora imprenditore Silvio Berlusconi «prima» che «si avviasse il dialogo con Carlo De Benedetti». E via così. Senza alcuna mediazione possibile tra due verità lontane anni luce. Mica male, come avvio del luminoso «semestre europeo» tutto italiano.

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