Da La Repubblica del 06/05/2003

Nei cinquantuno minuti di autodifesa Berlusconi non ha risposto alla domanda cruciale

Quei silenzi del Cavaliere sulla corruzione dei giudici

Si è rappresentato da solo come un fedele braccio operativo del potere politico: Craxi chiama, lui risponde

di Giuseppe D'Avanzo

QUEL che vuole Silvio Berlusconi non è nascosto in un angolo. Lo si vede a occhio nudo. Il premier vuole affondare in una nebbia la domanda del processo di Milano. La domanda è questa: Silvio Berlusconi, attraverso i buoni uffici (si fa per dire) di Cesare Previti, corruppe due giudici di Roma (Renato Squillante, Filippo Verde) per bloccare la vendita della Sme nell'interesse "politico" di Bettino Craxi? In un "giusto processo" (fair trial, letteralmente "processo leale" ), gli antagonisti giocano la partita con correttezza. In un quadro di garanzie che tutelano i diritti della difesa, lealtà vuole dire, per accusa e difesa, proteggere il merito del processo, contribuire all'accertamento dei fatti: se qualcosa è accaduto, chi ha fatto che cosa?

Quando alle 10.43 Berlusconi si alza in piedi dinanzi al tribunale di Milano, è subito chiaro fin dalle sue prime parole ( "Non dovrei essere imputato, mi si dovrebbe riconoscere un merito perché ho impedito una spoliazione del patrimonio dello Stato") che il premier non è in aula per contribuire all'accertamento dei fatti (furono corrotti quei giudici?). Il capo del governo vuole soltanto sostituire alla domanda del processo che lo vede imputato (è lui il corruttore?), un'altra domanda: furono distribuite tangenti per concludere il passaggio della Sme dall'Iri, presieduto da Romano Prodi, alla Buitoni di Carlo De Benedetti? Se il passo obliquo gli riesce, Berlusconi si può dire salvo. La prima ragione è tecnica, diciamo così.

Questo processo è già una cosa morta aggredito dalla minaccia della prescrizione (i fatti risalgono al 1985 e siamo soltanto al primo grado). Il premier vi ha contribuito mutando tre settimane fa la sua condizione di imputato/contumace in imputato che vuole essere presente per difendersi compatibilmente, come è naturale, "con le responsabilità di presidente del maggior partito italiano, impegnato presto in una campagna elettorale; presidente della maggioranza politica che governa il Paese; capo del governo e membro della troika europea; presto presidente di turno dell'Ue...".

Anche una "cosa morta" può tuttavia procurare danni politici e d'immagine. Berlusconi ne è consapevole. Sostituendo la domanda del processo, egli protegge quel che ha di più caro - il consenso - e tiene aperto un sentiero verso ciò che più desidera: l'immunità. Sono gli effetti che ottiene trascinando in questa storia Romano Prodi e Carlo De Benedetti (senza mai citare né il primo come percettore di tangenti per conto della sinistra democristiana né il secondo - editore di questo giornale - come corruttore).

Le insinuazioni che il capo del governo sparge in aula possono rafforzare nell'opinione pubblica (e sicuramente nell'elettorato del centrodestra) il sospetto che a Berlusconi più piace propagandare: una magistratura politicizzata mi perseguita lasciando nell'opacità oscuri affari che hanno come protagonisti i miei avversari politici. Di più. Vedete, sembra dire Berlusconi ai suoi avversari politici, anch'io posso sollevare contro di voi le attenzioni della magistratura e allora perché non valutiamo finalmente la possibilità di restituirci quell'immunità con troppa fretta liquidata nel 1993? L'assunto è vagamente ricattatorio (se non c'è materia per un ricatto, la si può sempre inventare) e comunque non serve a rispondere alla domanda: l'imputato ha corrotto i giudici di Roma? Anche se si prende in seria considerazione l'accusa di Berlusconi contro Prodi e De Benedetti, la sua situazione non muta.

I comportamenti di Prodi e De Benedetti, già valutati senza esiti, potranno essere ancora e di nuovo vagliati da un altro tribunale, da un'altra procura, ma questa verifica non addolcisce per Berlusconi la domanda: ha corrotto Squillante e Verde per ottenere sentenze sfavorevoli alla Buitoni? I cinquantuno minuti delle dichiarazioni spontanee di Silvio Berlusconi non affrontano mai questo nodo. Si muovono sempre in un solco che conduce fuori dell'aula, fuori del processo, al di là dei fatti che giustificano il procedimento: perché dai conti della Fininvest - Ferrido, Polifemo, Ambio - si muove denaro verso il conto di Previti e da qui verso il conto di Squillante? Quando, in qualche occasione, le parole dell'imputato-presidente del Consiglio si collocano dentro il processo di Milano suonano vuote, inutili, contraddittorie, rabberciate nella loro infondatezza e in qualche caso sorprendentemente (e inconsapevolmente) confermano le ipotesi dell'ufficio del pubblico ministero.

Si è vista Ilda Boccassini sorridere malignamente di tanto in tanto, ieri. Ne aveva qualche ragione. Lei sostiene che Silvio Berlusconi si sia mosso, per ordine di Craxi, al fine di bloccare con ogni mezzo l'acquisto della Sme da parte di De Benedetti. Per il pubblico ministero, è il movente della corruzione. Quel contratto andava annullato e bisogna prima metterlo in un limbo con altre proposte (Berlusconi forma una cordata con Barilla e Ferrero) per poi disintegrarlo in un'aula giudiziaria, forse comprata. Il presidente del Consiglio conferma il movente. E' vero, fu Craxi a chiedergli di intervenire. Berlusconi, dimenticando le autoelegie di "uomo nuovo", di imprenditore che si è fatto da solo, si autorappresenta come un fedele braccio operativo di quel potere politico. Craxi chiama, egli risponde. Senza "se" e senza "ma". Telefona subito a Barilla e Ferrero. Li convoca in un ristorante, li convince a mettere insieme le forze e a dare scacco alla Buitoni. Quando sfiora qualche circostanza, Berlusconi è costretto a correggere i fatti per tenere in piedi la ricostruzione. Racconta che Pietro Barilla era "indignato" per la vendita della Sme e sorpreso per la repentina privatizzazione.

Vero? Falso? Romano Prodi ha sempre ricordato che, prima di contattare De Benedetti, egli si mise in contatto con tutti coloro che operavano nell'agroalimentare e anche con lo stesso Berlusconi, che non si ritenne sufficientemente dotato per far fronte ai 500 miliardi che occorrevano. Ha detto Prodi in aula: "Presi contatti con Pietro Barilla, che venne a Bologna insieme al suo consigliere delegato, ingegnere Manfredi... Barilla mi rispose che non era per nulla interessato se non a qualche ramo legato alla sua particolare produzione... Feci approcciare da uno dei miei direttori, il dottor Nasi, l'altra ditta che, se anche in produzione diversa, aveva la dimensione tale da poter fare l'operazione. Il dottor Nasi contattò, se ben ricordo, il consigliere delegato della Ferrero...". Barilla, allora, poteva essere sorpreso della dismissione? Pietro Barilla non c'è più, ma nel solo interrogatorio reso - alla Procura della Repubblica di Roma - non fece nessun accenno all'interesse di Berlusconi.

Quando il presidente del Consiglio di tanto in tanto incrocia avvenimenti valutati dal processo, è costretto a guardarli da lontano senza toccarne uno. E' Berlusconi che sollecita Italo Scalera, un avvocato commercialista amico e compagno di studi di Cesare Previti, a farsi avanti. Gli dice di offrire di più della Buitoni, ma poco di più, soltanto il 10 per cento di più, nonostante si trattasse di una "spoliazione del patrimonio dello Stato". Di Scalera, Berlusconi parla poco, quasi per nulla. Come per nulla il presidente del Consiglio affronta la testimonianza che maggiormente lo mette in difficoltà. Il tesoriere della Fininvest Umberto Gironi ha ammesso in aula i trasferimenti di denaro in nero dai conti della società di Berlusconi al conto Mercier di Cesare Previti presso la banca Hentsch di Ginevra: 14 febbraio 1991, 2.732.862 di dollari; 1. marzo 1991, 434.404 dollari; 26 aprile 1991, un miliardo e ottocento milioni di lire...

E' con queste risorse "in nero" garantite dal "gruppo" che, secondo l'accusa, Previti metteva a disposizione della Fininvest la benevolenza delle sentenze romane. Al contrario, Berlusconi si spende quando deve materializzare in aula il fantasma di Magistratura democratica, quella corrente di satanassi in toga che lo perseguita: "Finanche Giovanni Tamburino, magistrato di Magistratura democratica, quando si è occupato di questa questione ci ha dato ragione...". Giovanni Tamburino non è stato mai in Cassazione, non si è mai occupato dell'affare Sme, non ha mai fatto parte di Magistratura democratica. E' apparso un tormentone, a ben pensarci. Appena affiorano i fatti, la ricostruzione di Berlusconi ne esce malconcia. Fa presentare come fossero prove di ferro a suo discarico due "missive" di Craxi a Clelio Darida (all'epoca ministro della Partecipazioni statali). Dovrebbero essere il colpo di teatro, l'asso decisivo per le ragioni della difesa. Si scopre che quelle due lettere sono già agli atti del processo. Da tre anni.

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