Da La Stampa del 24/04/2003

Jiang, dottor verità «Così ho denunciato le bugie sulla Sars»

Il medico militare in pensione è diventato il portavoce del personale medico cinese costretto al silenzio dalla censura: «Quando il regime ha dichiarato che i morti erano soltanto tre, ho dovuto smentirlo»

di Francesco Sisci

JIANG Yanyong è un medico militare in pensione. Ha 71 anni, è di media statura e media corporatura. Scomparirebbe nella folla che ogni giorno entra ed esce dal più importante ospedale della Cina, il famoso «301». Sembra quasi un passante, se non fosse per i suoi modi patrizi e il suo coraggio discreto quanto deciso.
I muri rossicci e l’imponente scritta sull’entrata Nord del «301» sono gli unici segni che distinguono questo ospedale militare, dove i leader del Paese, vecchi e nuovi, vanno a curarsi. È il nosocomio per l’aristocrazia rossa e i suoi medici devono essere all’altezza del compito. Qui Jiang è stato chirurgo capo per una decina di anni e ancora oggi, nonostante la pensione, continua a lavorare, segno della sua bravura e affidabilità. Sotto i suoi ferri e le sue cure è passata una fila lunghissima di dirigenti cinesi, compreso quasi sicuramente, anche Deng Xiaoping, morto nel «301» nel 1997, quando Jiang era ancora in servizio. Lui, oggi, è il simbolo e la faccia degli eroici medici di Pechino. È lui che ha parlato per primo alla stampa straniera, denunciando che i morti e gli ammalati di Sars nella capitale erano molti di più di quanto non ammettessero i comunicati ufficiali. «Sono rimasto scioccato, quando il ministero della Sanità, all’inizio di aprile, aveva detto che a Pechino c’erano solo 12 contagiati e tre morti. Quel giorno in ospedale i medici e gli infermieri erano furiosi - racconta Jiang -. Quello che ho saputo io era che all’inizio di marzo il “301” aveva ammesso un paziente anziano che stava molto male e che i colleghi sospettavano fosse malato di Sars, la polmonite atipica. Per questo venne trasferito al “302”
l’ospedale militare di Pechino per malattie infettive, dove però non avevano esperienza per la cura della malattia». «Così - prosegue - mentre cercavano di curare quell’uomo, 10 tra medici e infermieri sono rimasti contagiati. L’anziano è morto due giorni dopo essere stato ammesso all’ospedale e poi è morta anche la moglie. Solo al quel punto i dirigenti del ministero della Sanità hanno convocato una riunione sulla Sars, e hanno imposto il silenzio ai medici per non turbare la stabilità sociale durante il periodo della riunione plenaria del Parlamento allora in corso
». Adesso a Jiang è stato imposto di non parlare più ai giornalisti, ma il suo coraggio è protetto dai tanti meriti professionali accumulati del passato e da una fitta rete di relazioni che l’ha spesso messo al sicuro. Jiang, infatti, non è nuovo agli exploit. Nel ‘99, per il decennale della repressione di Tiananmen affermò pubblicamente che l’intervento dell’esercito in piazza era stato «controrivoluzionario» e che era falso che non ci fossero stati morti nella notte tra il 3 e il 4 giugno ‘89. Lui aveva personalmente operato diversi ragazzi, feriti da colpi di arma da fuoco nelle ore successive all’intervento dell’esercito. Oggi, in particolare, dietro le dichiarazioni di Jiang c’è una folla di medici e infermieri: si sentono spinto in prima linea, mentre i tanti «capetti» di partito sembrano lavarsi le mani e ignorare la gravità della situazione. Racconta uno dei camici bianchi, furioso: «Dicevano che bisognava tenere tutto sotto controllo per la stabilità del Paese, per le Olimpiadi, per la faccia della nazione, per non danneggiare le prospettive economiche. Ma poi hanno mi hanno spinto a stare dentro un’ambulanza con i pazienti ammalati di Sars, perché li volevano nascondere ai funzionari dell’Organizzazione mondiale della sanità venuti a ispezionare il nostro ospedale». C’è anche chi racconta di essere stato costretto a rimanere chiuso in un ufficio a sorvegliare i malati trasferiti dalle corsie, perché sparissero agli occhi dei funzionari dell’Oms, moltiplicando così i rischi dell’infezione. Ma molti medici - a differenza di Jiang - non se la sentono di esporsi in pubblico. Rischierebbero il posto. Così l’anziano chirurgo è diventato il portavoce di questi uomini che la stampa popolare cinese ha già ribattezzato «angeli in camice bianco». Sono loro l’ultima frontiera contro il morbo che avanza. Intanto, da settimane, la loro rabbia cresceva: avevano cominciato a rifiutare pazienti sospettati di essere colpiti dalla Sars, coltivando una ribellione sottile già prima che il ministro della Sanità fosse licenziato domenica scorsa. Quasi 500 tra medici e infermieri sono stati contagiati solo a Pechino. Jiang Yanyong è membro del partito comunista dal 1952 e chi lo conosce bene dice che è un uomo che sa che cos’è l’integrità, che non ha dubbi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. E che non ha nulla da perdere. Lui, infatti, è fuori da qualunque preoccupazione di carriera e non ha mai avuto ruoli nel partito. È in pensione e al massimo potrebbero non rinnovargli il contratto di consulenza con l’ospedale. D’altra parte, sono finiti da anni i tempi in cui si poteva finire in un campo di lavoro per una parola sbagliata o di troppo. Così Jiang ha potuto assumere i panni romantici dell’eroe della tradizione letteraria cinese, il personaggio integerrimo che dice la verità sfidando i funzionari vigliacchi e pavidi. Questo medico è anche la prova della capacità di reazione e della forza della società cinese.

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