Da Corriere della Sera del 22/04/2003

«In Iraq servono dieci anni di autoritarismo democratico»

Daniel Pipes, neoresponsabile dei rapporti con il mondo islamico, pensa al «modello turco» contro il radicalismo. «Elezioni? Più tardi»

di Ennio Caretto

WASHINGTON - L'America ha programmato accuratamente la campagna militare e la ricostruzione economica dell'Iraq, ma sembra avere ignorato il problema politico di fondo: il dilagare del radicalismo islamico. A sostenerlo è quello che il Washington Post definisce «il più brillante e controverso esperto Usa dell'Islam»: Daniel Pipes, il figlio dell'insigne storico del comunismo Richard Pipes, direttore del Middle East Forum e dell'Istituto della pace, autore di dodici volumi di cui l'ultimo intitolato «L'Islam militante raggiunge l'America». A lui la Casa Bianca ha affidato «l’iniziativa speciale per il mondo musulmano».
Pipes ritiene che «gli Stati Uniti vinceranno la battaglia per la democrazia in Iraq con le armi della società civile», ma crede che per prevenire l’instaurazione di un regime religioso musulmano serva una fase di «autoritarismo democratico di 5-10 anni», forse di più. «Il modello turco», esemplifica.

Fino a che punto il problema è grave?
«Al punto che se non si corre in fretta ai ripari, l'Iraq rischia di fare la fine dell'Algeria o della Jugoslavia. Non si può dire nulla di buono di Saddam Hussein, tranne una cosa: che reprimeva l'integralismo. La fine del suo regime minaccia di lasciare il campo libero agli estremisti sciiti, se non anche sunniti».

Come mai l'amministrazione Bush appare impreparata?
«Non so quanto lo sia. Non so, per esempio, che strategia seguirà il generale Jay Garner, l’amministratore civile in Iraq. Ma temo che la Casa Bianca abbia sottovalutato questo problema perché troppo impegnata sul fronte militare e su quello economico. E anche per un difetto culturale: non tutta l'America è consapevole di cosa significa la militanza islamica: un'ondata che travolse l'Iran e rischia di travolgere altri Paesi».

Che cosa intende per «armi della società civile»?
«La libertà di pensiero, di parola, di stampa. I diritti umani. Le riforme sociali. Il mercato. Tutti i capisaldi delle democrazie occidentali. L'unica maniera di neutralizzare le spinte fondamentaliste in Iraq è di farne uno Stato aperto, moderno, un esempio per il Medio Oriente e il Golfo Persico».

Come? Trasformandolo in un protettorato americano?
«No. Noi dobbiamo andarcene il più in fretta possibile. Una nostra presenza prolungata aggraverebbe il problema. La soluzione è un regime autoritario, secolare e benevolo, con un impegno preciso a democratizzare il Paese nel corso di un decennio, se necessario di più. Un processo dall'alto in basso, come avvenne in Turchia o a Taiwan».

Niente libere elezioni?
«Non a breve termine, sarebbe un errore. Non parliamo di ex Paesi comunisti dove la maggioranza della popolazione era d'accordo sul cambiamento e lo fece partire dal basso. Parliamo di un Paese dove si stanno regolando i conti, dove le etnie e le religioni sono in conflitto tra loro, dove si rischia il caos. Il nostro compito è di sponsorizzare un governo illuminato e forte».

E chi ne sarebbero i leader?
«Secondo me, non gli esponenti dell'opposizione interna, senza rapporti con il mondo esterno, ma quegli iracheni in esilio che si sono preparati a gestire il potere e sentono di appartenere alla comunità internazionale. Sono nostri alleati, e sono certi che il totalitarismo religioso possa essere sconfitto. Uno è Ahmed Chalabi».

Lei è accusato di essere un nemico dell'Islam.
«Non lo sono affatto. Sono nemico dei fanatici religiosi e dei dittatori, che è diverso. Di gente come Bin Laden, il mullah Omar, Saddam Hussein, che sono scomparsi come dei capi mafiosi, ma che non contano più nulla. Contro di loro, l'Occidente non conduce guerre tradizionali o di religione, ma operazioni di polizia. Agiamo da poliziotti contro criminali locali per salvare le vittime, le loro popolazioni».

Anche in Siria?
«L'America non ha bisogno di fare guerra alla Siria per favorirne il cambiamento. Bastano dure pressioni, come stiamo facendo adesso, dopo avere chiuso gli occhi per vent'anni».

L'Iraq favorirà il dialogo tra israeliani e palestinesi?
«Un passaggio precipitoso dal problema dell'integralismo religioso in Iraq alla crisi fra Israele e i palestinesi sarebbe controproducente. Prima occorre dare una politica solida all'Iraq. Saltare subito a Israele sarebbe come se, nel 1945, invece di pensare alla Germania e al Giappone, l'America si fosse dedicata alla questione irlandese».

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