Da Il Messaggero del 22/04/2003

Neppure Arafat è per tutte le stagioni

di Marcella Emiliani

QUANDO gli "eroi" invecchiano, ovvero è possibile che Yasser Arafat oggi costituisca uno dei principali ostacoli al processo di pace israelo-palestinese? Forse la domanda è mal posta, ma se la fanno in molti di fronte al braccio di ferro che oppone il presidente dell’Autonomia nazionale palestinese (Anp) al primo ministro Abu Mazen, impossibilitato a formare il nuovo governo — che Israele e Stati Uniti aspettano per approntare un tavolo di negoziato — proprio per il veto di Arafat su diversi nomi e soprattutto su quello del responsabile della sicurezza Mohammed Dalan. Del resto da tre anni a questa parte, da quando cioè è scoppiata l’Intifada al-Aqsa, sono in molti a sospirare: «Ma Arafat non è Mandela» intendendo dire con questo che, a differenza del gigante della lotta contro l’apartheid in Sudafrica, il presidente palestinese non ha mai mostrato e non mostra alcuna intenzione di farsi da parte. Pervicacemente rimane "un uomo per tutte le stagioni", anche se la Storia — quella con la esse maiuscola — sembra ormai travolgerlo.
E’ stato, Arafat, un vero e proprio funambolo della politica mediorientale, notoriamente la più complessa, conflittuale e ambigua del pianeta. Quando nel 1969 assunse la presidenza dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) era fermamente convinto che toccasse ai palestinesi, non agli Stati arabi, portare avanti il conflitto con Israele, anche perché gli eserciti arabi fino a quel momento erano stati regolarmente sconfitti dalle forze di difesa israeliane. Ma soprattutto era convinto che il mondo intero dovesse conoscere le sorti dei palestinesi ai quali — a livello internazionale — si riconosceva ai tempi tutt’al più lo status di rifugiati. E’ rimasta negli annali la famosa battuta della iron lady israeliana degli anni Sessanta, Golda Meir: «I palestinesi chi?». Ebbene Arafat ha fatto conoscere i palestinesi al mondo intero con tutti i mezzi, facendo dell’ambiguità, del detto e non detto, del pragmatismo e del "fiutare il vento" una vera e propria arma politica. Quanto era personalmente implicato nel terrorismo palestinese degli anni Settanta? Quanto nella destabilizzazione del Libano che sfociò nel ’75 in una lunghissima guerra civile? Quanto in tempi più recenti nell’Intifada al-Aqsa? Fino agli anni Novanta è riuscito comunque a tenere assieme l’Olp, a impedire che le rivalità intestine tra i Paesi arabi "fratelli" fagocitassero la causa palestinese e a dare agli oltre 5 milioni di profughi palestinesi sparsi per il mondo il senso di un’identità comune. Il suo bonapartismo itinerante però ha mostrato la corda proprio quando, dopo gli accordi di Oslo del ’93, è tornato in Palestina e si è misurato col processo di pace. L’Anp è stata costruita a suon di clientele, corruzione e ben poco rispetto dei diritti umani. Soprattutto l’Anp è stata costruita senza tener conto che i palestinesi "dell’interno" cioè quelli nati e cresciuti nei Territori occupati da Israele avevano priorità politiche e una coscienza storica diversa dai palestinesi "dell’esterno" cioè quelli nati e cresciuti nella Diaspora di cui Arafat è sempre stato il campione. Di qui la contestazione sanguinosa di organizzazioni quali Hamas e Jihad islamica che — coi loro attentati — hanno sì ferito Israele, ma hanno contemporaneamente contribuito a delegittimare proprio la leadership di Arafat. Una delegittimazione che — va detto — è stata alimentata ad arte anche dai governi di destra israeliani, soprattutto dal governo Sharon che — specie dopo gli attentati alle Torri gemelle del 2001 — ha addossato ad Arafat praticamente tutta la responsabilità dell’Intifada al-Aqsa, senza chiedersi quanto lo stesso Arafat la subisse. Niente più della "prigionia" di Arafat nel suo quartier generale diroccato della Moqada a Ramallah può rappresentare meglio la sua condizione di oggi: quella di un "grande vecchio" sopravvissuto, la cui ombra però continua a stagliarsi carismatica e minacciosa sulle macerie della politica palestinese.

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