Da La Repubblica del 16/04/2003
L'urgenza di Berlusconi
di Massimo Giannini
NEL nome di "un obbligo morale a intervenire subito", il Parlamento italiano ha dato via libera alla Missione Iraq. Per la prima volta dopo mesi di inutile spargimento di insulti e di rancori, i due Poli hanno inscenato uno spettacolo quasi decente. La maggioranza, almeno sul tema dell'emergenza umanitaria, ha adottato una strategia seria. Anche se restano alcuni punti oscuri dell'operazione che dovranno essere chiariti nei prossimi giorni. L'opposizione, almeno sulla politica estera, ha tenuto una linea responsabile. Anche se si dilatano i buchi neri di un'alleanza che dovranno essere risolti nei prossimi mesi. Il governo muove da un assunto che non si può non condividere: "Il popolo iracheno non può essere lasciato solo: il dopoguerra non può fare più vittime di quante ne abbia fatte la guerra", ha detto il ministro degli Esteri alle Camere.
Quella di Frattini è una riflessione efficace. Si potrebbe dire bipartisan, a giudicare dall'effetto che ha prodotto sull'ala dialogante del centrosinistra. Peccato che mentre il suo ministro responsabilmente ringraziava, Berlusconi ha subito chiuso tutte le porte al dialogo, affrettandosi a dire che "la maggioranza non deve dire grazie a nessuno". Pazienza. Il concetto espresso da Frattini serve comunque a dare copertura etica a una missione che incorpora anche un forte contenuto diplomatico e un rilevante interesse industriale. L'Italia, che non è intervenuta militarmente nel conflitto con le sue truppe e i suoi aerei, vuole partecipare politicamente ed economicamente alla ricostruzione con i suoi apparati e le sue aziende. La misura di questa ambizione, opportunistica ma tutto sommato comprensibile, sta nelle risorse militari attivate per l'operazione (3.000 uomini) e nel coinvolgimento pro-quota di tutte le quattro Forze Armate (Carabinieri, Esercito, Marina e Aeronautica). Poco meno di un grande presidio permanente in Iraq. Ma molto più di una semplice azione umanitaria, come sembrava dovesse essere solo fino a due giorni fa. Per quantità e qualità, dopo i 3.820 uomini mandati in Kosovo questa è dunque la missione più importante mai messa in campo dall'Italia fino ad oggi. Un vero e proprio contingente interforze, costruito non solo per controllare la distribuzione di cibo e di medicine o per presidiare ospedali e uffici pubblici, ma con delicate e articolate funzioni di peace-keeping.
Berlusconi vuole esserci. Sull'Iraq l'urgenza è duplice. C'è un'urgenza oggettiva, che riguarda le enormi sofferenze della popolazione civile bombardata ed affamata. C'è un'urgenza soggettiva, che nasce dagli equilibri internazionali e dai rapporti di forza. L'Italia, piantando anche la sua bandiera a Bagdad, spera di lanciare un segnale. Non tanto all'amico americano: a Bush il premier aveva assicurato già da tempo la piena disponibilità dell'Italia a fornire tutto il necessario dopo la caduta del regime di Saddam. Quanto agli alleati europei: a Blair e Aznar, a Chirac e Schroeder, il premier vuole far capire che l'Italia punta a giocare una partita da protagonista nella Yalta mediorientale, e a dare un'impronta "rifondatrice" al semestre di presidenza della Ue.
Questa duplice urgenza spiega l'invio della missione, anche al di fuori di un mandato esplicito dell'Onu, della Nato o dell'Unione europea. La fame e la sete dei poveri iracheni non possono aspettare la farraginosa burocrazia degli organismi multilaterali. Allo stesso tempo, l'interesse geo-politico e la rendita petrolifera non vogliono aspettare la lenta diplomazia degli Stati nazionali. Anche in questo caso nella mossa italiana c'è calcolo e tornaconto, ma non c'è scandalo. Si tratta di una missione di pace, non di un attacco bellico. Il Parlamento - nel pieno rispetto della sua Costituzione - può autorizzare un'iniziativa autonoma dell'Italia anche senza la legittimazione di entità sovranazionali. Ma è essenziale che queste ultime intervengano al più presto nell'area: sia per gestire il dopo guerra in Iraq, sia per prevenire nuove guerre in Siria o in Iran.
È positivo che l'unico voto che ieri ha visto uniti un pezzo di Ulivo e un pezzo di Polo sia caduto su una parte della mozione Ds e Margherita che impegna il governo a "farsi promotore in ogni sede della Ue" di una "iniziativa perché il Consiglio di Sicurezza dell'Onu riassuma il suo ruolo in tempi rapidi all'indomani della conclusione della guerra irachena". È un impegno cruciale. Berlusconi non può eluderlo. Alla Casa Bianca ha concesso troppi affidamenti, acritici e gratuiti, su una posizione che ha destabilizzato le Nazioni Unite e destrutturato l'Unione Europea. Da presidente di turno della Ue, il Cavaliere non potrà più permettersi il lusso autolesionistico di fare la nave corsara tra le due sponde dell'Oceano, cercando di aprire in autonomia nuovi canali preferenziali nel rapporto transatlantico. Dovrà ricucire alleanze in Europa, e ricreare un bilanciamento con la superpotenza americana. Pena il totale fallimento del semestre di presidenza italiano.
Restano comunque diversi punti oscuri, che Frattini non ha precisato. Quando partirà il contingente italiano? E soprattutto a chi farà capo? La prima domanda è importante, per capire se sarà possibile inquadrare la missione almeno in una cornice europea che nel frattempo potrebbe e dovrebbe maturare, o se invece i tempi più stretti imporranno una responsabilità politico-operativa unicamente italiana. La seconda domanda è decisiva, per comprendere se ci sarà una linea di comando mista o plurale, o se invece i nostri militari andranno a prendere ordini dal generale Tommy Franks. Il premier e i suoi ministri faranno bene a fornire qualche delucidazione in più nei prossimi giorni, al Parlamento e all'opinione pubblica: in Iraq si può ancora morire, e quando partono tanti soldati le regole di ingaggio non possono essere ambigue.
Da questa nuova prova parlamentare, esce un'opposizione a due facce, che soffre ma limita i danni. Nel solito, penoso gioco delle mozioni separate o incrociate, da una parte si distingue una sinistra sempre più massimalista, che vede Verdi e comunisti sempre più attratti nell'orbita di Bertinotti, conferma il suo inconciliabile rifiuto delle logiche di coalizione e rafforza la sua irriducibile vocazione alla minorità politica. Ma dall'altra parte si cementa sempre di più un'area riformista intorno all'asse Ds-Margherita, che attira Sdi e Udeur e responsabilmente si astiene sulla proposta del governo. È il nucleo duro dell'Ulivo, che finalmente recupera una cultura di governo e dimostra di non temere il ricatto morale di chi a sinistra grida continuamente all'inciucio e per principio rifiuta ogni forma di "intelligenza col nemico", anche a costo di votare contro un aiuto umanitario. La novità, stavolta, è che a questo nucleo duro si tiene sostanzialmente aggrappato anche il "correntone": e questa, a suo modo e dopo gli strappi continui di Sergio Cofferati, è una novità. È la prova che, al fondo, anche in Italia le sinistre possono essere due (quella moderata e quella radicale), e non tre come troppo spesso è sembrato fino ad oggi. Anche in questo caso, i prossimi mesi imporranno un chiarimento. La politica estera, per il centrosinistra, è un test identitario sempre più doloroso e discriminante. Il voto di ieri lo conferma. "Non in mio nome" può essere lo slogan di un movimento che punta a fermare a una guerra unilaterale, sbagliata e illegittima. "In mio nome" deve essere il motto di una missione che ambisce a ristabilire una pace multilaterale, giusta e legittima.
Quella di Frattini è una riflessione efficace. Si potrebbe dire bipartisan, a giudicare dall'effetto che ha prodotto sull'ala dialogante del centrosinistra. Peccato che mentre il suo ministro responsabilmente ringraziava, Berlusconi ha subito chiuso tutte le porte al dialogo, affrettandosi a dire che "la maggioranza non deve dire grazie a nessuno". Pazienza. Il concetto espresso da Frattini serve comunque a dare copertura etica a una missione che incorpora anche un forte contenuto diplomatico e un rilevante interesse industriale. L'Italia, che non è intervenuta militarmente nel conflitto con le sue truppe e i suoi aerei, vuole partecipare politicamente ed economicamente alla ricostruzione con i suoi apparati e le sue aziende. La misura di questa ambizione, opportunistica ma tutto sommato comprensibile, sta nelle risorse militari attivate per l'operazione (3.000 uomini) e nel coinvolgimento pro-quota di tutte le quattro Forze Armate (Carabinieri, Esercito, Marina e Aeronautica). Poco meno di un grande presidio permanente in Iraq. Ma molto più di una semplice azione umanitaria, come sembrava dovesse essere solo fino a due giorni fa. Per quantità e qualità, dopo i 3.820 uomini mandati in Kosovo questa è dunque la missione più importante mai messa in campo dall'Italia fino ad oggi. Un vero e proprio contingente interforze, costruito non solo per controllare la distribuzione di cibo e di medicine o per presidiare ospedali e uffici pubblici, ma con delicate e articolate funzioni di peace-keeping.
Berlusconi vuole esserci. Sull'Iraq l'urgenza è duplice. C'è un'urgenza oggettiva, che riguarda le enormi sofferenze della popolazione civile bombardata ed affamata. C'è un'urgenza soggettiva, che nasce dagli equilibri internazionali e dai rapporti di forza. L'Italia, piantando anche la sua bandiera a Bagdad, spera di lanciare un segnale. Non tanto all'amico americano: a Bush il premier aveva assicurato già da tempo la piena disponibilità dell'Italia a fornire tutto il necessario dopo la caduta del regime di Saddam. Quanto agli alleati europei: a Blair e Aznar, a Chirac e Schroeder, il premier vuole far capire che l'Italia punta a giocare una partita da protagonista nella Yalta mediorientale, e a dare un'impronta "rifondatrice" al semestre di presidenza della Ue.
Questa duplice urgenza spiega l'invio della missione, anche al di fuori di un mandato esplicito dell'Onu, della Nato o dell'Unione europea. La fame e la sete dei poveri iracheni non possono aspettare la farraginosa burocrazia degli organismi multilaterali. Allo stesso tempo, l'interesse geo-politico e la rendita petrolifera non vogliono aspettare la lenta diplomazia degli Stati nazionali. Anche in questo caso nella mossa italiana c'è calcolo e tornaconto, ma non c'è scandalo. Si tratta di una missione di pace, non di un attacco bellico. Il Parlamento - nel pieno rispetto della sua Costituzione - può autorizzare un'iniziativa autonoma dell'Italia anche senza la legittimazione di entità sovranazionali. Ma è essenziale che queste ultime intervengano al più presto nell'area: sia per gestire il dopo guerra in Iraq, sia per prevenire nuove guerre in Siria o in Iran.
È positivo che l'unico voto che ieri ha visto uniti un pezzo di Ulivo e un pezzo di Polo sia caduto su una parte della mozione Ds e Margherita che impegna il governo a "farsi promotore in ogni sede della Ue" di una "iniziativa perché il Consiglio di Sicurezza dell'Onu riassuma il suo ruolo in tempi rapidi all'indomani della conclusione della guerra irachena". È un impegno cruciale. Berlusconi non può eluderlo. Alla Casa Bianca ha concesso troppi affidamenti, acritici e gratuiti, su una posizione che ha destabilizzato le Nazioni Unite e destrutturato l'Unione Europea. Da presidente di turno della Ue, il Cavaliere non potrà più permettersi il lusso autolesionistico di fare la nave corsara tra le due sponde dell'Oceano, cercando di aprire in autonomia nuovi canali preferenziali nel rapporto transatlantico. Dovrà ricucire alleanze in Europa, e ricreare un bilanciamento con la superpotenza americana. Pena il totale fallimento del semestre di presidenza italiano.
Restano comunque diversi punti oscuri, che Frattini non ha precisato. Quando partirà il contingente italiano? E soprattutto a chi farà capo? La prima domanda è importante, per capire se sarà possibile inquadrare la missione almeno in una cornice europea che nel frattempo potrebbe e dovrebbe maturare, o se invece i tempi più stretti imporranno una responsabilità politico-operativa unicamente italiana. La seconda domanda è decisiva, per comprendere se ci sarà una linea di comando mista o plurale, o se invece i nostri militari andranno a prendere ordini dal generale Tommy Franks. Il premier e i suoi ministri faranno bene a fornire qualche delucidazione in più nei prossimi giorni, al Parlamento e all'opinione pubblica: in Iraq si può ancora morire, e quando partono tanti soldati le regole di ingaggio non possono essere ambigue.
Da questa nuova prova parlamentare, esce un'opposizione a due facce, che soffre ma limita i danni. Nel solito, penoso gioco delle mozioni separate o incrociate, da una parte si distingue una sinistra sempre più massimalista, che vede Verdi e comunisti sempre più attratti nell'orbita di Bertinotti, conferma il suo inconciliabile rifiuto delle logiche di coalizione e rafforza la sua irriducibile vocazione alla minorità politica. Ma dall'altra parte si cementa sempre di più un'area riformista intorno all'asse Ds-Margherita, che attira Sdi e Udeur e responsabilmente si astiene sulla proposta del governo. È il nucleo duro dell'Ulivo, che finalmente recupera una cultura di governo e dimostra di non temere il ricatto morale di chi a sinistra grida continuamente all'inciucio e per principio rifiuta ogni forma di "intelligenza col nemico", anche a costo di votare contro un aiuto umanitario. La novità, stavolta, è che a questo nucleo duro si tiene sostanzialmente aggrappato anche il "correntone": e questa, a suo modo e dopo gli strappi continui di Sergio Cofferati, è una novità. È la prova che, al fondo, anche in Italia le sinistre possono essere due (quella moderata e quella radicale), e non tre come troppo spesso è sembrato fino ad oggi. Anche in questo caso, i prossimi mesi imporranno un chiarimento. La politica estera, per il centrosinistra, è un test identitario sempre più doloroso e discriminante. Il voto di ieri lo conferma. "Non in mio nome" può essere lo slogan di un movimento che punta a fermare a una guerra unilaterale, sbagliata e illegittima. "In mio nome" deve essere il motto di una missione che ambisce a ristabilire una pace multilaterale, giusta e legittima.
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