Da La Stampa del 04/04/2003

Diario arabo

Il rischio di nascondere l’atrocità della guerra e di banalizzare la pace

di Igor Man

IL lettore «impressionabile» non legga questa puntata del Diario. Perché racconta una storia atroce, quella di Alì Smain, dieci anni: un fanciullo che, scandisce Francisco Peregil, inviato del País a Baghdad, «è senza braccia, senza padre, senza madre, senza fratelli, senza zii né cugini». Tutta la sua famiglia aveva lasciato Baghdad per sfollare a Fdeia, un quartiere periferico, abitato da poveracci (sciiti e curdi) e considerato «sicuro» perché privo di obiettivi militari, o politici, insomma come diciamo noi: «sensibili». Invece una bomba senz’altro non intelligente, gli è piombata addosso.

Alì è vivo ma saccheggiato da terribili ustioni, il suo corpo non sopporta neanche un sottile lenzuolo. Ho visto le fotografie: prima dal torace di Ali sbucavano due tronchi di legno affumicato, informi: le sue braccia bruciate. Dopo, quelle braccia erano sistemate in bell’ordine su di un tavolo con accanto una testa di donna, un paio d’occhi che sembravano schizzar fuori da un volto femminile stravolto da un urlo senza suono (Una volta ancora il profetico quadro di Munch, «L’Urlo», appunto, parente stretto della guerra). Infine dal torace di Alì si vedono sbucare due palloncini. Bianchi. Di garza. Quei palloncini han preso il posto delle braccia, amputate al massimo.

Nascondono due moncherini, più minuscoli delle alette di un putto. Il dottor Osama Salé, capo del reparto grandi ustionati dell’ospedale Kindi, dice che quella di Alì Smain «è l’esperienza più tragica della mia vita: uomo, medico». A causa dell’embargo, negli ospedali iracheni, dice ancora il dottor Salé, scarseggiano anche i medicinali di base e gli analgesici li danno col contagocce. «Alì è sotto terapia indolore grazie alla carità d’un anonimo che ha comperato per lui la morfina».

Come, dove? «Che discorsi, al mercato nero. Là, coi soldi, compri quello che vuoi». Codesta storia atroce è un «già visto». Amman, 15 di gennaio del ‘91: alla tv lo speaker piange. Scorrono le immagini di quella «strage del bunker» che di colpo ha triturato il giovine ma robusto mito della «guerra chirurgica», pulita, addirittura indolore. In Italia non compariranno le sequenze più atroci di questo autentico film dell’orrore. Il tronco d’un ragazzino pietrificato dalla morte subitanea, il capo riverso, la bocca spalancata dall’urlo dello spasimo finale. Due mani di donna, due mani soltanto, a galleggiare, incrociate, sul grembo sostituito da un grumo di carbone.

Forse per esorcizzare il luridume chiamato guerra, venne inventato al tempo del Vietnam un fatuo linguaggio bellico fatto di sigle: Triple A (la contraerea); Target of opportunity (bersaglio conveniente); Bda (verifica del danno prodotto dalle bombe); CD collateral damage, (cioè vittime civili). Ora questa guerra annunciata come breve, svela l’assenza d’una cultura della Pace. Non soltanto in Italia. Non ce l’ho coi pacifisti stradali, certamente in buona fede ma è vero che dal 1945 ad oggi, trascurando le guerre più o meno «locali», abbiamo finito col confondere il benessere materiale con la Pace, il consumismo e sinanco l’intrallazzo con la Pace.

Ma «la Pace è come la fede - diceva Quinzio -, bisogna agostinianamente trovarla dentro di noi». Le sfilate, le risse in tv rischiano di banalizzare la guerra, mutilando la Pace. Recita il Corano: «Suoneranno d’improvviso le trombe e coloro che porteranno opere cattive saranno costretti con la faccia nel fuoco. Così saranno castigati per quello che han fatto» (XXVII, 87-90).

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