Da Il Manifesto del 18/03/2003

Sul bordo della vigilia

di Ida Dominijanni

«Il giorno della verità», come lo chiama nel suo linguaggio primitivo il presidente Bush, finisce duneue (è finito, per voi che leggete) stanotte alle due, le venti di ieri a Washington, quando l'uomo più potente del pianeta annuncerà che il dado è tratto, la politica non può più fare nulla e il gioco passa alle armi. E noi tutti siamo qui in attesa del discorso presidenziale, con l'antenna satellitare pronta a captare tempi e modi dell'ultimo ultimatum a Saddam e al mondo. In attesa che il Verbo si manifesti sullo schermo televisivo, passo velocemente in rassegna le altre vigilie di guerra che ci sono toccate in poco più di un decennio, e penso a quanta acqua è rapidamente passata sotto i ponti. Tutto era inedito e imprevedibile, per una come la sottoscritta che ha avuto la fortuna di nascere e crescere nella lunga parentesi di pace del secondo dopoguerra europeo, la sera del 17 gennaio del `91, quando le prime bombe squarciarono il buio del cielo sopra l'Iraq: il rumore della guerra, gli echi inconsci delle paure ereditati dalla generazione precedente che quel rumore lo conosceva e lo riconosceva, il ritmo alterato del giorno e della notte, la tecnica e i trucchi dell'informazione armata. Adesso tutto sembra già visto e prevedibile: scommettiamo sull'ora x, ci immaginiamo i suoni e le immagini, prepariamo le edizioni straordinarie, calcoliamo quanto ci metteranno gli uomini di Bush e Blair ad arrivare a Baghdad. Nel breve volgere di dodici anni, passando dall'Iraq all'Iraq attraverso l'ex Jugoslavia e l'Afghanistan, la guerra è già ridiventata, oltre che un normale strumento di intervento della politica di potenza, anche una tranche del nostro normale immaginario? «Si deve poter fare differenza fra la guerra in generale, se mai esiste, e questa guerra in particolare, posto che sia ancora una guerra e non si sia trasformata in qualcosa d'altro che ancora non sappiamo nominare né pensare», leggo nell'editoriale che presenta l'espressione, una nuova rivista di filosofia proposta dal Collettivo 33 (un gruppo di lavoro politico-culturale che, guarda caso, si è costituito proprio proprio sulla critica della parola d'ordine della «normalità» lanciata dalla sinistra riformista degli anni 90 come antidoto all'«eccezione» berlusconiana). Pensare questa guerra, e ogni guerra, nei suoi scarti dalla guerra è la prima mossa necessaria per opporsi alla normalità e alla normalizzazione della guerra. Mossa tutt'altro che ovvia, tuttavia. Tant'è che le interpretazioni in campo oscillano fra i due estremi della giustificazione della «guerra preventiva» come risposta eccezionale all'eccezionale trauma dell'11 settembre, e la sua condanna come quarto e insopportabile atto della continuità belligerante con cui la potenza americana mira dal `91 in poi a ricostruire l'ordine mondiale a misura propria. Continuità e discontinuità, ripetizione e differenza si intrecciano invece nel ripetuto ricorso alla guerra secondo modalità non ancora del tutto chiarite: se è vero da una parte che la dottrina della guerra preventiva, lanciata come risposta all'11 settembre, era stata in realtà accuratamente preparata lungo il decennio della riscossa dei neoconservatori americani saliti al potere con Bush; e che d'altra parte la costruzione del «nuovo ordine mondiale» è stata effettivamente intercettata, forzata e modificata dall'11 settembre. Il rumore sempre uguale di quattro guerre diverse, nel frattempo, ha coperto un arco di cambiamenti a mente fredda inimmaginabile nel giro di soli dodici anni, dal diritto internazionale certificato nella legge allo spaesamento interiore di ogni singolo abitante del pianeta globale. Apparentemente così simile alle altre, si annuncia una vigilia di guerra del tutto diversa dalle altre.

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