Da Corriere della Sera del 18/03/2003

Bush agli iracheni: l’ora della liberazione è vicina

Ultimatum al raìs. Appello ai militari: non combattete per un regime morente, non bruciate i pozzi

di Ennio Caretto

WASHINGTON - George Bush dichiara guerra all'Iraq. Lo fa in un freddo appello alla nazione alle 20 locali, le 2 di stamane in Italia, in un clima assieme di fiducia e paura, con Wall Street in spettacolare ascesa nella speranza che il conflitto sia breve, e con l'America divisa. Concede 48 ore di tempo a Saddam Hussein e ai suoi figli per andare in esilio, e - sebbene non lo dichiari espressamente - ai loro generali per compiere un golpe. Non precisa se attaccherà domani notte, «sceglieremo noi il momento» afferma, ma è chiaro che la guerra è questione di ore. Il presidente non ritornerà indietro: ammonisce «tutti gli stranieri in Iraq, dai giornalisti agli ispettori dell'Onu» di lasciare subito il Paese. Lamenta che il Palazzo di vetro di New York «non abbia affrontato le sue responsabilità», ma promette agli americani che «noi affronteremo le nostre». E rivolge un significativo messaggio ai militari iracheni: «Seguite le istruzioni che vi daremo. Non sacrificatevi per un regime morente, non incendiate i pozzi di petrolio, non usate armi di distruzione di massa. Permettere alle forze alleate di entrare pacificamente in Iraq». E' la conferma che il Paese verrà occupato in ogni caso, per lungo tempo. Al Pentagono, è praticamente il primo giorno del conflitto: il presidente annuncerà l'attacco, riferiscono i funzionari, solo quando sarà iniziato.
Solo davanti al microfono nel Salone d'oriente alla Casa Bianca, Bush appare molto diverso dal leader ispirato che un anno e mezzo fa, sulle ceneri delle Torri gemelle di Manhattan si impegnò a fare giustizia. Non tradisce i suoi sentimenti, non parla dei ragazzi americani in uniforme che vanno a morire nel deserto, degli strazi degli iracheni, del suo tormento di fronte al conflitto.
E' distaccato, due soli problemi sembrano preoccuparlo: rassicurare l'Iraq che la sua campagna è diretta a liberarlo e renderlo prospero, «un modello di democrazia per il Medio oriente e il Golfo Persico», e rassicurare l'America che sarà protetta da una recrudescenza terroristica. La dichiarazione di guerra è nella tasca di Bush da domenica sera, la hanno scritta due fidi, Karen Hughes e Michael Gerson, a bordo dell'Air force one, la Casa bianca volante, durante il viaggio di andata e di ritorno dalle Azzorre. Ma il presidente la recita quasi automaticamente, come se cercasse di giustificarsi per una decisione impopolare. E infatti, gran parte del discorso di quindici minuti è dedicata agli orrori del rais. Né manca un brusco richiamo ai membri dell'Onu che si sono opposti al ricorso alla forza (la Francia, che peraltro non nomina). Saddam Hussein ha sempre violato le risoluzioni dell'Onu, non si è disarmato, conclude Bush. E sottolinea con ira che l'America fa perno sul diritto internazionale, «perché autorizzata al ricorso alla forza dalle risoluzioni del Palazzo di vetro». Congedandosi, il presidente proclama che l'Onu avrà un ruolo importante nella ricostruzione dello Iraq, e che gli Usa continueranno ad appoggiarlo.
Per l'America è un salto nel buio. L'amministrazione si mostra sicura di sé, certa di una vittoria rapida e totale, persuasa di riuscire a recuperare il rapporto con l'Onu, se non anche con le potenze che la hanno sconfitta al Palazzo di vetro, la Francia la Russia la Germania e la Cina. E per il momento, il Paese non sembra avvertirne l'isolamento: nell'ultimo sondaggio d'opinione, quello della Cnn e di Usa Today , il 57 per cento degli americani appoggia Bush; l'88 per cento crede che Saddam Hussein e Bin Laden il leader di Al Qaeda siano alleati; e il 51 per cento pensa anche che il rais abbia partecipato alle stragi dell'11 settembre del 2001. Ma l'appoggio scende al 47 per cento con il ritiro della risoluzione all'Onu. E non è l'unica riserva gli Usa nell'«ora della verità», come la definisce Bush. C'è anche profondo disagio al Pentagono alla prospettiva che l'Iraq impieghi armi chimiche e batteriologiche. Un angoscioso interrogativo accompagna inoltre l'ultimatum di Bush: dopo quella contro Bagdad ci sarà anche una guerra contro l'Iran e la Corea del nord? L'interrogativo nasce dalle dichiarazioni di un anonimo funzionario della Casa bianca la scorsa settimana, raccolte da numerosi giornali tra cui il New York Times e Usa Today . Bush, ha confidato il funzionario, «cercherà di impedire in qualche maniera che gli altri Paesi canaglia si procurino armi chimiche e batteriologiche». E ha aggiunto che nazioni come l'Iran e la Corea del nord devono capire che, sulla scia del conflitto iracheno, l'America «non si lascerà più minacciare da nessuno». E' così riemerso lo spettro di una crociata contro l'Asse del male, non la sola Bagdad. Dicono i media Usa che questa strategia del confronto non è ancora stata codificata, e molto dipenderà dagli eventi in Iraq.
Se la guerra si protraesse, e se l'occupazione di Bagdad divenisse troppo pericolosa o costosa, la strategia sarebbe rivista. Se la guerra avesse un esito positivo, come lo ebbe la guerra afgana, la strategia verrebbe invece messa in pratica.
E non è scontato che Bush passerebbe di nuovo attraverso l'Onu.

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